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domenica 31 ottobre 2021

IL CONFORMISMO PROGRESSISTA

Il conformismo progressista di quelli con il cuxx al caldo. Invito a leggere il bell'articolo, che posto in calce,  di Luca Ricolfi che ben riporta le criticità del ddl Zan. Osservo che nel mainstream, lo stesso che plaude al commissariamento tecnofinanziario della politica pubblica italiana, chi non era d'accordo in toto con il ddl Zan e trova ragionevole la proposta Scalfarotto, che è lì da anni, in automatico sarebbe collocabile nel medioevo e, nella migliore delle ipotesi, un utile idiota per Salvini e Meloni. Il pd di Letta, che non ha accettato alcuna discussione né mediazione sui punti più controversi, a partire dalla cancellazione del sesso biologico a favore della semplice percezione di sè, un vero e proprio obbrobrio che sottende la negazione della differenza sessuale, quindi dell'unicità della differenza femminile, ci sta costruendo la prossima campagna elettorale. Siamo all'apologia della virtualità, la trasposizione degli avatar dal virtuale al reale. Gli agit prop dell' "elettore progressista indignato" sono il blocco sociale prodotto dalla occupazione partitocratica della Cosa Pubblica nella sua declinazione fatta di nominati, raccomandati, percettori di contributi discrezionali (partecipate a tutti i livelli, fondazioni, amministrazioni e istituzioni pubbliche, a cui si aggiunge l'appendice dei percettori del reddito di cittadinanza). Così si continua a non interrogarsi sulla mancanza di soggettività politica dei partiti, che hanno abdicato alla loro funzione, esternalizzandola ai portatori e ai rappresentanti di interessi particolari, spesso neanche ben identificabili. Così si continua a non occuparsi del malessere sociale, che trova gli sfoghi che trova, comprese le manifestazioni novax, cavalcate dall'estrema destra, e che i "progressisti" guardano con la puzza al naso invece di farci i conti, pretendendo che la politica ne affronti le ragioni sociali sottese. Tornando al ddl Zan: se il problema è la omotransfobia e le violenze connesse, ed è indubbiamente un problema, basta approvare il ddl Scalfarotto e applicare rigorosamente le leggi esistenti. La politica, consegnata ai tecnocrati, non chiede ai cittadini di partecipare ai processi di cambiamento produttivo e cognitivo e ai processi di direzione politica. Per loro è  meglio parlare d'altro. Segue la riflessione di Luca Ricolfi: Non ho idea di che cosa abbia spinto Enrico Letta e il suo partito a rifiutare, fin da prima dell’estate, ogni compromesso sul Ddl Zan. Errore di calcolo? Voglia di inasprire lo scontro con il centro-destra? Manovre sull’elezione del presidente della Repubblica? Chissà. Ora che la frittata è fatta, e che l’approvazione di una legge conto l’omotransfobia è rimandata alle calende greche, forse varrebbe la pena che il Pd – esaurita la raffica di contumelie contro la destra retrograda, razzista e omofobica – si fermasse un attimo a riflettere. Tema della riflessione: come mai i dubbi sul Ddl Zan, anziché essere esclusivi della destra, sono così diffusi anche dentro il campo progressista? Già, perché al segretario del Pd forse è sfuggito, ma la realtà è che le perplessità sul Ddl Zan sono piuttosto diffuse in diversi settori della sinistra. E in molti casi non sono di tipo tattico, come quelle espresse da Renzi e dai suoi, per cui sarebbe meglio una legge imperfetta che nessuna legge. No, ci sono movimenti, associazioni, politici, studiosi di area progressista che sono convinti che si possa fare una legge a tutela delle minoranze migliore e non peggiore del Ddl Zan. Chi sono? Diverse associazioni femministe, tanto per cominciare. Non solo italiane (Udi, Se non ora quando, Radfem, Arcilesbica) ma oltre 300 gruppi in più di 100 paesi, riuniti sotto la sigla Whrc (Women’s Human Rights Campaign). La rappresentante italiana nella Whrc è Marina Terragni, da decenni impegnata nelle battaglie per i diritti delle donne, degli omosessuali e dei transessuali. A queste associazioni non piace che le donne, che sono la metà dell’umanità, siano trattate come una minoranza; ma soprattutto non piace che il mondo femminile, con i suoi spazi e i suoi diritti, sia arbitrariamente colonizzato da maschi che si autodefiniscono donne, come è già capitato – ad esempio – in ambiti come le carceri e le competizioni sportive; per non parlare dei dubbi sui rischi di indottrinamento (e di cambiamenti di sesso precoci) dei minori. Poi ci sono gli studiosi, e specialmente i giuristi, che hanno analizzato l’impianto della legge, e ne hanno individuato almeno tre criticità: rischi per la libertà di espressione, difetto di specificità e tassatività dei reati perseguiti con il carcere, conflitto con l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (“i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”). Fra i giuristi che hanno sollevato obiezioni, oltre a diversi costituzionalisti, c’è anche Giovanni Maria Flick, ex ministro della giustizia del primo Governo Prodi. Ma forse il caso più interessante, e clamoroso, di disallineamento con l’integralismo LGBT di Letta e del Pd è quello dell’estrema sinistra, in Europa ma anche in Italia. Forse non tutti sanno che, non da ieri, in una parte della sinistra radicale le battaglie LGBT, e più in generale le battaglie per i diritti civili, sono guardate con ostilità come “campagne di distrazione di massa”, che la sinistra riformista – irrimediabilmente compromessa con il capitalismo e con le logiche del mercato – utilizzerebbe per spostare l’attenzione dal vero problema, ossia l’arretramento dei diritti sociali. Su questa linea, ad esempio, troviamo filosofi come Jean Claude Michéa e, in Italia, Diego Fusaro. Ma anche uomini politici di sicura fede progressista, come Mario Capanna (assolutamente contrario, perché “la legge aggiunge reati, non diritti”) o il sempre comunista Marco Rizzo, forse la voce più severa sui diritti LGBT e sulle celebrities che di quei diritti si servono per autopromuovere sé stesse (ma, è il caso di notare, osservazioni del medesimo tenore senso sono talora venute anche da un riformista doc come Federico Rampini). E poi ci sono i (pochi) politici progressisti fuori dal coro, che hanno il coraggio di dire la loro anche se il partito non è d’accordo. Penso ad esempio a Paola Concia (Pd, sposata con una donna), che nello scorso aprile sollevò varie e argomentate obiezioni, chiedendo di modificare il testo della legge. O Valeria Fedeli (Pd), che nello scorso maggio sollevò perplessità analoghe, pure lei convinta che le modifiche avrebbero potuto migliorare la legge. Ma forse il caso più interessante di posizionamento politico è quello di Stefano Fassina, ex parlamentare Pd, poi transitato in Sinistra italiana e approdato a LEU. In una conversazione con Il Foglio, giusto il giorno prima dell’affossamento del Ddl Zan, Fassina non solo osserva che l’articolo 4 (sui limiti alla libertà di espressione) andrebbe eliminato per “il suo portato di arbitrio giurisdizionale”, ma afferma che “sarebbe gravissimo per il nostro stato di diritto non intervenire sull’articolo 1” (quello che definisce l’identità di genere come scelta soggettiva). Quell’articolo, infatti, introduce “norme che si configurano come visione antropologica – legittima ma di parte”. Una visione che “non è stata esplicitata, condivisa e discussa, e quindi non può stare nel disegno di legge e diventare progetto educativo universale”. Che dire? Forse una cosa soltanto: una parte del mondo progressista, Letta o non Letta, continua a ragionare con la propria testa. Ed è un bene, perché certe battaglie, come quelle sul pluralismo e sulla libertà di espressione e di educazione, hanno più probabilità di essere vinte se non diventano proprietà esclusiva di una sola parte politica. Pubblicato su Il Messaggero del 29 ottobre 2021

martedì 26 ottobre 2021

Per una rigenerazione democratica

di Fiorello Cortiana C’è un filo che collega la non partecipazione al voto di prossimità delle amministrative a Piazza del Popolo e alle tante altre che settimanalmente costruiscono l’esercizio di una attitudine alla piazza da parte di tanta gente comune. Sfiducia e insicurezze diventano disaffezione e alterità esplicita per tutto ciò che è istituzionale e ufficiale. Lo squadrismo reazionario organizzato si incarica di geolocalizzare e di attaccare il nemico spostando il piano politico su quello dell’ordine pubblico e giudiziario. Già il sostegno al ricambio Renziano e alla riduzione degli istituti della rappresentanza, da lui proposti, erano un indicatore. I vaffaday sono stati una semplificazione più esplicita ed efficace, così come la riduzione pentastellata della rappresentanza parlamentare, in luogo della sua qualificazione con leggi elettorali costituzionali. È evidente e preoccupante la costante deriva verso semplificazioni estreme “chi non è con noi è contro di noi, perciò un nemico”. Siamo a un bivio: o la cultura e le esperienze efficacemente riformiste rispondono qualificando la democrazia in termini di partecipazione consapevole, qualità sociale e diritti, o assisteremo a una guerra civile strisciante e perpetua: qualcosa di simile a quello che sta accadendo negli States. Tutto ciò è immediatamente inerente e costitutivo della necessaria conversione ecologica. Da non confondersi con transazioni nominali: sarebbe come pensare che dall’Icmesa di Seveso o dall’Ilva di Taranto potesse uscire aria pulita solo perché la definiamo così. Nella ridefinizione degli equilibri geopolitici della globalizzazione e della azione degli Stati senza territorio che sono le corporation, l’Europa non può esimersi dal diventare un soggetto politico democratico senza rinunciare alla sua natura costitutiva di universalità dei diritti e del welfare. A partire da qui si devono riferire le modifiche e le innovazioni istituzionali necessarie ai livelli statali e locali. Partiamo da noi, da Milano con i suoi quartieri e dalla rete dei comuni metropolitani. Partiamo da chi qui abita e definisce la sua cittadinanza. Il distacco e la distanza tra il drammatico processo di delegittimazione dell’istituto della democrazia e i commenti sull’esito del voto da parte del sindaco Sala rivelano una mancanza assoluta di empatia sociale che accompagna una mancanza di visione alla esternalizzazione della soggettività politica nella pianificazione territoriale. La massima ambizione è quella di essere funzionali a decisioni affidate a interessi particolari degli attori internazionali, più o meno trasparenti, del mercato fondiario e immobiliare. Nuovo stadio, quindi, nuovo quartiere a S. Siro e gli Scali ex FS, sono un esplicito manifesto. Una ambizione che il sindaco vuole esercitare come interlocutore esclusivo, viste le attribuzioni delle deleghe in Giunta. Non ci sono scorciatoie politiche ed elettorali, come confermato dalle urne: la promozione di una partecipazione informata al processo deliberativo e l’esercizio della Cittadinanza Attiva sono le condizioni per una rigenerazione del Campo Democratico e una risignificazione delle sue istituzioni. A partire dalla piena attuazione costituzionale della Città Metropolitana con l’elezione diretta del sindaco e del Consiglio da parte dei cittadini. Con Municipi che invece di essere palestre senza poteri per aspiranti consiglieri comunali potrebbero essere agenzie di facilitazione delle esperienze di comunità: ad es. con produzione condominiale e di isolato di energia rinnovabile. Occorre riconoscersi tra le competenze e le esperienze che in questi ultimi anni hanno avuto una funzione critica e propositiva in città e nella metropoli. Su queste pagine, come con i ricorsi e con l’udienza pubblica in Consiglio Comunale sulla alternativa alla pianificazione degli ex Scali FS o sulla possibile riqualificazione di S. Siro. Con i ricorsi sulla legge elettorale o con le proposte in Parlamento per la Città Metropolitana. Con i referendum cittadini o sull’uso dell’ex Piazza d’Armi o della Goccia alla Bovisa e poi Farini o Bassini ecc. Occorre attivare una condivisione con metodo, luoghi fisici e una adeguata piattaforma digitale per dare vita a quello che Marco Vitale felicemente definisce il Consiglio Civico. Contraltare, interlocutore e capace di azioni istituzionali per impegnare il Consiglio Comunale e la Giunta. Investire testa e cuore come cittadinanza consapevole: ciò può essere più avvincente dello sfogo dell’atomizzazione populista contro, con manovratori che si danno il cambio. È l’efficacia del cambiamento democratico la misura da condividere.

venerdì 22 ottobre 2021

Il Sindaco ambientalista?

https://www.facebook.com/radiolombardia/videos/587726325909219/

giovedì 7 ottobre 2021

Elezioni comunali di Milano

ELEZIONI COMUNALI A MILANO Un commento a caldo di Fiorello Cortiana Con il 57,73% dei voti validi Beppe Sala è stato confermato sindaco al primo turno, una affermazione netta: la prima volta per un sindaco di centrosinistra, l’autorevolezza di tale conferma troverà un riscontro immediato nella formazione della giunta, anche a fronte del 33,86% del PD, l’azionista di maggioranza. Sarebbe miope dedicarsi alle congetture sul ruolo di Sala negli sviluppi dello scenario locale e in quello politico-parlamentare anche in relazione alle scelte di Mario Draghi. A Milano si è manifestata l’affluenza più bassa di sempre, ferma al 47,72%. Il commento di Sala è stato laconico “Rispetto al primo turno dello scorso mandato del 2016 ho preso un quarto dei voti in più da 224mila a 277mila. Lo dico per orgoglio ma anche perché dato che il tema dell’astensionismo è un tema, però non sta a casa mia”. Può risultare pura archeologia notare che l’altro sindaco-manager per il centro-destra, Gabriele Albertini, al secondo mandato, eletto al primo turno, nel 2001 si era fermato al 57,54%. Il fatto è che nel 2001 votò l’82,29% dei milanesi: quest’anno il 47,72%. Albertini ottenne 499.020 voti, Sala ne ha ricevuti 277.478. Il milanese Gaber cantava ‘La libertà è partecipazione’, Sala dovrebbe considerare che la partecipazione universale alla scelta dei rappresentanti e degli amministratori è parte costitutiva della democrazia e lo riguarda, perché è anche in ‘casa sua’. Se per l’europarlamentare del Pd Pierfrancesco Majorino la comparazione di risultati non va oltre il 2016 ” La nostra coalizione in voti assoluti è andata meglio di cinque anni fa.” Maran ostenta iattanza: “L’affluenza è bassa in tutta Italia, l’importante è vincere”. Alla elezione di Giuliano Pisapia nel 2011 l’affluenza fu del 67,56 % con un aumento del 0,04% sul 2006. Dieci anni fa non un secolo. Nel 2016 per il Referendum Costituzionale del Governo Renzi la partecipazione in città fu del 71,72%. C’è un 20% abbondante di aventi diritto al voto che sceglie di non esercitarlo e colpisce che rilevare la crisi di legittimità dell’istituto della democrazia tocchi a Giorgia Meloni “Credo che non si possa trattare in modo superficiale il dato sull’astensionismo: quando si vota in città importanti e c’è un astensionismo intorno al 50% non è una crisi della politica ma della democrazia”. Ci sono diverse ragioni per la non partecipazione al voto: certamente è un riflesso del commissariamento della politica dentro l’incertezza data dalla Pandemia Covid19; certamente la disparità competitiva dei candidati sembrava rimandare ad un esito precostituito a garanzia della consociazione degli affari ‘Stadio e quartiere di San Siro e Scali ex FS’. Certamente l’assenza di ipotesi di visioni alternative per la Città Metropolitana, le sue reti di infrastrutture digitali e di trasporto, il percorso informato e partecipato delle sue comunità alla necessaria conversione ecologica. Chi è stato fuori dalla consociazione ha espresso una sterile affermazione identitaria a-contestuale, come i socialisti con una persona seria come Goggi. O ha proposto come precostituita opposizione una competenza attiva sui progetti alternativi per San Siro ed ex Scali FS, come Mariani. C’è altresì il notevole risultato dei Verdi milanesi, unico in Italia con il 5%. Risultato non prodotto da alcuna campagna o referendum promossi in città negli ultimi cinque anni, dovuto piuttosto alla presenza attiva di Greta Thunberg e di decine di migliaia di giovani, che hanno occupato con le loro sollecitazioni le piazze, le sedi ufficiali e ogni tipo di media nella settimana precedente il voto. Non ultimo c’è stato l’esaurimento della meteora pentastellata, anche in versione Conte, così come le candidature infruttuose dei protagonisti della sua diaspora. Non c’è soltanto l’afasia ecologista-radicale-riformista: sono in campo la Citizen Initiative Europea, una ‘direttiva europea di iniziativa popolare’ che impegnerà Parlamento e Commissione sulla proposta di una tassazione europea omogenea per i combustibili di origine fossile, i referendum su Fine Vita e Giustizia, il ricorso al Consiglio di Stato sull’Accordo per gli ex scali FS, il ricorso di Besostri e di Viva il Parlamento sulla incostituzionale legge elettorale nazionale. Il tutto coerente con una conversione ecologica che non conosce scorciatoie ma richiede la connessione di competenze ed esperienze e la condivisione di proposte efficaci. C’è filo da tessere, occorrono tessitori, telaio e disegno. Mica poco ma intrigante