ciao, welcome :-)

in questo blog metto un po di tutto se cerchi qualcosa che non trovi chiedimelo

venerdì 29 gennaio 2010

in difesa della Costituzione

Sono onorato di prendere la parola al sit in del "popolo viola" in difesa della Costituzione in Piazza Mercanti a Milano Sabato 30 Gennaio alle 16,00 :-)

Obama sulle energie rinnovabili

Vi segnalo il video del Presidente Statunitense Obama con un importante passaggio sulle energie rinnovabili come scelta strategica.
La Camera USA ha già approvato la legge relativa e ora tocca al Senato, la determinazione di Obama ed il supporto popolare possono
superare anche qui la resistenza trasversale delle lobbies del fossile.

mercoledì 27 gennaio 2010

per aderire all'appello

vincenzomaria.vita@senato.it

appello- GIU' LE MANI DALLA RETE


GIU’ LE MANI DALLA RETE

Il Decreto legislativo del governo, che contiene nuove regole sulla Televisione e sui media, si è abbattuto con violenza sulla scena della comunicazione italiana, già segnata dalla concentrazione e dai conflitti di interessi.

E’ di una gravità inaudita. Mette in discussione la libertà di informare e di essere informati. Blocca qualsiasi possibilità di sviluppo moderno del paese.

Da una parte, contiene la secca riduzione dell’obbligo per le emittenti nazionali di produrre film ed audiovisivi italiani ed europei; dall’altra, estende a dismisura gli spazi per la pubblicità, fino a determinare i contenuti stessi dei programmi e delle opere audiovisive. Infine, viene subdolamente aggredita la libertà di operare in Rete.

In pratica, viene evocato un incisivo intervento dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, per estendere la normativa sul “copyright” anche ai fruitori dei servizi indipendentemente dalla piattaforma di trasmissione utilizzata (abolendo così la “neutralità della rete” tutelata a livello internazionale!).

Quindi, viene esteso l’obbligo di rettifica anche ai telegiornali trasmessi sul WEB e fruiti a richiesta.

Infine, il Decreto concede al Ministero competente il potere di autorizzare la fornitura di immagini attraverso Internet.

Dobbiamo battere questa tendenza! E’ autoritaria e, per di più, impraticabile.

Serve, invece, una vera e propria Carta dei Diritti e dei Doveri per la “Cittadinanza digitale”.

La Rete è un bene comune e un fondamentale diritto costituzionale.

Chiediamo al governo di cancellare dal testo del Decreto le norme censorie sul WEB.

Per queste ragioni, chiediamo a tutte le cittadine e a tutti i cittadini di sottoscrivere questo documento

lunedì 25 gennaio 2010

Ignoranza Digitale

E' andato molto bene l'incontro che ho fatto con Negroponte e Fini, la Camera sosterrà sia OLPC-One Laptop Per Child nella cooperazione italiana, sia la proposta del Nobel a Internt "Internet for Peace" coinvolgendo gli altri parlamenti europei. Ho fatto notare che i parlamentari sono invece impegnati su proposte del Governo per ridurre internet alle logiche televisive, come fosse uno strumento broadcasting e non una rete interattiva, sic!

Copenhagen: quando il clima non è più notizia

La questione dello stato di salute del clima è uscita dai palinsesti ma resta più che mai di fronte a noi e ai nostri figli. 193 i Paesi partecipanti, circa 120 capi di Stato e premier e 45.000 le richieste di accredito costituiscono la conferma che la questione è posta ed è ormai una consapevolezza planetaria, ma è posta male. L’accordo finale è per ora una dichiarazione di intenti: si fissa a 2 gradi l'aumento della temperatura media, contro il limite richiesto dal G77 di 1,5°C, e si elimina ogni riferimento al taglio del 50% al 2050 per tutti i paesi, come ha voluto la Cina, si stabilisce la revisione e l'assestamento entro il 2015, incluso il nuovo obiettivo a 1,5 gradi per limitare il riscaldamento. Per quanto riguarda i fondi per lo sviluppo sostenibile i Paesi del G77 chiedevano 400 miliardi di dollari, la metà di quanto gli Usa hanno investito per salvare Merrill Linch e le altre banche, i Paesi industrializzati hanno preso impegni per 30 miliardi fino al 2012. Che arriveranno a 100 nel 2020. La questione dei soldi mette in secondo piano quella dei limiti delle emissioni. Se un Bene Comune del Pianeta quale è il clima fosse una banca, la sua condizione di esposizione rischierebbe di scoppiare come una bolla finanziaria e probabilmente assisteremmo alla definizione di interventi concreti a livello globale per salvarlo e scongiurare il disastro. Questa amara considerazione deve accompagnarci nell’analisi della situazione internazionale rivelatasi a Copenhagen per capire le possibili politiche per il clima. Le scelte attuali, se non si cambierà rotta, porteranno ad un incremento della temperatura a fine secolo di 3 gradi, dove l’aumento a 2,5% avrebbe conseguenze gravissime per il Sudest asiatico e l’Africa Subsahariana. Lo stesso Mediterraneo, in quanto cerniera tra due aree climatiche potrebbe trovarsi in una situazione delicata. Avere la consapevolezza che l’ecosistema terra potrebbe avere conseguenze irreversibili laddove si raggiungessero dei punti critici di temperatura non significa fare del catastrofismi. Piuttosto è richiesto un investimento serio nella ricerca climatica, cosa che in Europa sta facendo solo la Germania mentre da noi è previsto il taglio di un terzo dei ricercatori di ISPRA. Ora c’è poco tempo per fare tradurre gli intenti di Copenhagen in impegni concreti, Entro gennaio saranno raccolti gli impegni volontari di ciascun paese e a giugno, probabilmente a Bonn, sarà convocato un vertice per preparare l'appuntamento annuale di dicembre a Città del Messico.

Stati Uniti e Cina, responsabili insieme di oltre il 70% delle emissioni di CO2 nel mondo, sono stati, con l’India, il Sudafrica e il Brasile , gli autori del testo dell’accordo, l’Europa ne ha preso atto. Dietro la definizione della mappa dei nuovi protagonisti economici e politici mondiali che prende corpo nel succedersi degli appuntamenti planetari si rivela un vuoto di leadership internazionale che il carisma di Obama non può colmare.

Il Sudafrica ospiterà i campionati mondiali di calcio e le Olimpiadi del 2016 si terranno in Brasile. In questo inizio di secolo non c’è più l’equilibrio del terrore bipolare, non c’è più l’”impero statunitense” e l’unilateralismo arrogante, ma c’è un vuoto nella governance mondiale, una mancanza di sovranità. Nonostante la montagna di Copenhagen abbia partorito un gracile topolino non abbiamo assistito ad una mobilitazione mondiale che pure dal vertice di Seattle in poi aveva visto un protagonismo dei movimenti e significativamente il Parlamento europeo chiede di "riformare il metodo di lavoro dell'Onu con urgenza”. Manca l’interlocutore, manca il luogo ufficiale e pubblico della decisione e la cosa è avvertita con sconcerto e con preoccupazione.

Con il tavolo allargato dell’Aquila il vertice del G8 ha dichiarato esplicitamente il suo esaurimento. La politica internazionale pare danzare nel vuoto, poche contromisure alla crisi finanziaria sono state prese nel corso del G20 e l’unico vertice costante pare essere il G2 tra Stati Uniti e Cina, principale creditore del debito pubblico americano.

Occorre prendere atto che è quasi impossibile un accordo tra le ambizioni «ambientaliste» dell’Europa con quelle della Cina, dell’India, del Brasile, del Sudafrica che non vogliono vincoli ora che il “miracolo economico” tocca a loro.

In questa situazione dinamica e di grande incertezza l’Europa può essere competitiva economicamente e protagonista politicamente laddove in grado di definire e condividere una precisa strategia, con obiettivi, procedure e controlli chiari e precisi. Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona questo è il passaggio necessario. I Paesi cosiddetti “emergenti” hanno da tempo smesso di confrontarsi sulle definizioni dello sviluppo ma lo hanno praticato e oggi siedono ai tavoli che contano, quale visione ha l’Europa di sé, del suo sviluppo, del futuro?

Mettere a punto soluzioni capaci di coniugare lo sviluppo con la riqualificazione dei modelli produttivi e quindi con i cambiamenti climatici costituisce una straordinaria opportunità di crescita economica.

La sfida è qui ed è una sfida che l’Europa può giocare.

L’innovazione tecnologica, quindi la riduzione dei consumi energetici e l’utilizzo di fonti rinnovabili, la conseguente innovazione nei processi produttivi e nei servizi può caratterizzare la natura dello sviluppo economico dei nuovi protagonisti mondiali, con il loro peso demografico che costituisce di per sé un mercato notevole. Know how innovativo, trasferimento di tecnologie avanzate, capacità di mediazione, sono risorse che l’Europa può mettere sui tavoli negoziali e sui mercati globali.

La Commissione europea ritiene che attraverso l’uso diffuso della videoconferenza la riduzione dei viaggi d’affari del 20% porterebbe alla diminuzione di 22 milioni di tonnellate di CO2 l'anno. L’introduzione e la diffusione della "mobilità intelligente", a livello mondiale, ridurrebbe le emissioni di CO2 di oltre 1,5 miliardi di tonnellate. Il ministro Ronchi ha evidenziato che "se l’Europa non trova una posizione unica, rischia la marginalizzazione”

Paul Magnette, ministro belga per il clima: “Se i paesi che inquinano di più continuano a ostacolare l’adozione di obiettivi vincolanti per la riduzione delle emissioni, l’Unione Europea deve considerare – come previsto dal rapporto del WTO del 26 giugno 2009 – una Carbon Tax sui prodotti importati da quei paesi che praticano una concorrenza sleale nei confronti delle nostre imprese”. Posizione caldeggiata dal presidente francese Nicolas Sarkozy e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. che non rientra ufficialmente tra i temi di discussione. Per il momento l’UE deve attenersi all’impegno di ridurre le emissioni di gas serra del 20% entro il 2020 rispetto agli standard del 1990, con l’eventualità di arrivare al 30% qualora gli altri paesi sviluppati dovessero prendere impegni simili. L’Italia deve fare la sua parte onorando gli impegni assunti sui cambiamenti climatici al recente vertice del G8 dell’Aquila in attuazione del Protocollo di Kyoto alla vigilia della Conferenza di Copenaghen , ma nella Finanziaria non ha destinato alcun fondo e non ha individuato strumenti per la riduzione delle emissioni di Co2. Così la Finanziaria in campo energetico taglia i 50 milioni di euro fondi destinati al Fondo sull’efficienza energetica e agli incentivi per il risparmio energetico e non c’è traccia della copertura della detrazione di imposta del 55% per interventi di riqualificazione energetica degli edifici esistenti. Oggi queste non sono scelte di ordine ideologico, più o meno ambientaliste, l’innovazione tecnologica per l’ambiente e l’energia costituisce un asset decisivo per la ripresa nella competizione globale.

Il negazionismo ambientale

Il negazionismo è in ognuno di noi, è l’omeostasi delle nostre abitudini e delle nostre rendite di posizione, sono le lenti sfuocate attraverso le quali alziamo lo sguardo sopra il nostro ombelico. Giocando sull’effetto sorpresa, alcuni hacker negazionisti della problematicità dei cambiamenti climatici, hanno estratto alcune frasi da mail scambiate tra scienziati ( le quali ammontano a 160 Mb!) al fine di dimostrare che il problema non esiste.

Purtroppo non abbiamo a che fare con un trucco scientifico, il climatologi del Global Carbon Project hanno da poco pubblicato uno studio sulla risvista Nature Geoscience che arriva a ipotizzare un aumento della temperatura di 6 gradi, rispetto ai livelli pre-industriali, entro la fine di questo secolo se proseguiremo sulla strada di questo modello di sviluppo. E’ una previsione che conferma quanto registrato dal Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite di esperti sul clima (Giec). Il quarto Assessment Report-Ipcc del gruppo internazionale di ricercatori che studia il surriscaldamento climatico evidenzia come gli eventi meteorologici stiano diventando sempre piu' estremi con indici consistentemente alti dalla fine degli anni '70. Il “toccar con mano” le conseguenze dei cambiamenti climatici già in atto, dalle zone del pianeta interessate dall’estensione della siccità a quelle sempre più spesso colpite da uragani ed inondazioni, insieme ai problemi di scarsità ed esaurimento delle fonti energetiche non rinnovabili così come ai problemi legati al consumo e alla qualità dell’acqua, spiegano la straordinaria presenza a Copenhagen di Paesi (190) e di primi ministri e capi di stato (105).

Considerare il maldestro colpo di coda negazionista come qualcosa di estraneo, altro dalle preoccupazioni delle persone di buona volontà , costituirebbe una miope presunzione. Esso costituisce l’esplicitazione di tutte le diffidenze, le pigrizie e le difficoltà che attraversano ognuno di noi nel passare “dal dire al fare”, nel riconoscere e tradurre preoccupazioni e intenzioni in comportamenti coerenti capaci di cambiare i nostri consumi e i nostri costumi. Un paio di esempi spiegano la nostra pigrizia e la nostra ignoranza. Le periodiche immagini di bambini malnutriti che ci propongono i telegiornali ci ricordano che un'alimentazione insufficiente porta a dimagrimento, apatia, debolezza muscolare, depressione del sistema nervoso, minor resistenza alle malattie, invecchiamento precoce, morte per inedia. Al contrario nei paesi avanzati il fenomeno alimentare più diffuso è la sovralimentazione con i conseguenti mali fisici: disturbi al cuore, appendicite, calcoli, vene varicose, emboli, trombosi, ernia, emorroidi, cancro del colon e del retto, obesità. Poco meno della metà dei cereali prodotti sulla terra vengono utilizzati in Occidente per alimentare il bestiame che viene poi consumato sotto forma di carne o per produrre biocombustibile. Se la quantità di cereali destinati all'alimentazione del bestiame venisse impiegata direttamente nell'alimentazione umana, potrebbero venir nutrite ben 2 miliardi e 500 milioni di persone. Per quanto riguarda l’acqua potabile troviamo solo conferme della disparità Nord/Sud: in Africa circa il 75% della popolazione rurale non ha acqua potabile; in Americalatina sono il 77%; in Estremo Oriente circa il 70%. Sono più di 600 milioni le persone al mondo prive di acqua potabile.

La sfida ecologica, se è da un lato ineluttabile, dall’altro è una metafora importante per leggere insieme tanti problemi del pianeta; l’ecologia non deve essere tanto un punto di vista complessivo, quanto il tentativo di riannodare insieme molti punti di vista. Oggi in un mondo dove sono venute meno le teorie onnicomprensive, rimane importante l’attitudine, anzi l’arte, di montare insieme i problemi in modo che ogni controversia si illumini di un nuovo punto di vista non appena entra a far parte, di un insieme più ampio. E’ l’eccezione dell’ecologia delle idee. Nella sfida ecologica dei giorni nostri, ci sono due rischi: uno è il catastrofismo puro e semplice, che ha certo le sue buone ragioni, e le trova nell’idea che stia covando qualcosa di irreparabile nella biosfera, qualcosa che suscita allarme in chi alla sfida ecologica deve rispondere, come ci è stato ricordato. Il secondo è il pensiero che dice: la condizione umana è da sempre in uno stato di crisi, quindi non dobbiamo preoccuparci più di tanto, perché la nostra condizione è stata vissuta da ogni generazione; quindi si tratta di tornare sui nostri passi, senza bisogno di innovare dei modelli di pensiero e delle pratiche di vita. Questi due atteggiamenti a volte sono prevalenti, altre si accordano l’uno con l’altro. Dobbiamo partire da un altro punto di vista, se vogliamo capire la specificità dell’odierna sfida ecologica. Benché la condizione umana sia sempre stata caratterizzata da una crisi permanente, gli aspetti della crisi ogni volta vengono declinati in maniera differente; ad esempio oggi è chiaro che dal punto di vista dell’abitazione della specie umana sul pianeta, i luoghi, sono decisamente cambiati. Bastano alcuni dati: fino a un secolo fa si nasceva, si viveva e si moriva in un intorno molto piccolo, di non più di 50 chilometri di raggio. Oggi noi sappiamo che non è più vero: ogni individuo nella sua vita interagisce con qualcosa di ben più grande del mondo in cui vive.

L’altro aspetto è che all’inizio del secolo gran parte dell’umanità, sostanzialmente contadini, viveva in campagna. Oggi la gran parte dell’umanità, e toccherà il 70% in questo secolo, vive inurbata, con un doppio rapporto: di desertificazione di buona parte della superficie terrestre, e di cementificazione energivora di quei luoghi che erano le città capaci di esercitare funzioni di sintesi ed innovazione.

Se 50 anni fa il 60% dei gas serra emessi in atmosfera veniva assorbito dal pianeta ora questa percentuale è scesa al 55: un calo dovuto alla risposta dei meccanismi di assorbimento, in primo luogo oceani, al riscaldamento in atto. Intanto le emissioni continuano ad aumentare: quelle legate ai combustibili fossili, anche grazie al sorpasso del carbone sul petrolio, dal 2000 al 2008 sono cresciute con una media annua del 3,4%, mentre negli anni ’90 l’aumento annuo era dell’1%.
Dal 1990 al 2008 la CO2 emessa è cresciuta del 41%, del 29% a partire dal 2000. Un aumento concentrato soprattutto nei paesi emergenti – con Cina e India che dal 2000 hanno raddoppiato le proprie emissioni. I paesi in via di sviluppo emettono ora più di quelli ricchi, ricordando però che un quarto delle loro emissioni è legata alla produzioni di beni che poi vengono venduti all’Occidente.
La questione centrale, oggi, non risiede soltanto nel comune riconoscimento culturale dei “commons”, dei beni comuni naturali e culturali, in quanto tali indisponibili all'esaurimento o alla riduzione a beni privatizzabili sottratti al pubblico dominio e invece meritevoli di pratiche che li preservino anche per la disponibilità delle future generazioni. Il riconoscimento dei beni comuni può avvenire se disponiamo di uno sguardo capace di coglierne la struttura coerente all'interno dei processi che la comunità umana sta vivendo su questa piccola terra in questo passaggio di millennio. Non si tratta di condividere una definizione più o meno catastrofica, quindi, ma uno sguardo con la testa e con il cuore. Solo questo riconoscimento può costituire un denominatore comune per una relazione tra le differenze politiche, economiche, culturali, etniche e religiose, che non sia a somma zero per la specie umana. Perché il futuro è oggi, sono le azioni e le scelte che decidiamo di fare alla luce della conoscenza di cui disponiamo, della sua qualità e della sua coerenza con il vivente tutto. Gli uomini, figli dell'affanno individuale, del potere terreno del sacro e poi delle ideologie, hanno faticato a riconoscere i beni comuni come tali. Una ulteriore difficoltà è legata al riconoscimento dei beni comuni come condizione essenziale per la vita del vivente, umano e non, sulla terra. Ci occorre un nuovo sguardo epistemologico, spirituale ed esistenziale, adeguato a vedere e riconoscere i beni comuni. Questo inizio di secolo e di millennio sembra un pettine al quale sono arrivati i nodi critici di un modello di sviluppo energivoro, dei problemi drammatici che già oggi il cambiamento climatico prefigura e della logica speculativa del “denaro da denaro”, peraltro nominale.Una nuova consapevolezza inizia ad emergere come necessità: noi non ci salveremo per reazione a un disastro più grande degli altri, noi ci salveremo in virtù di una scelta di valore. Ciò che cambia oggi è il contesto relazionale che interessa il genere umano e la relazione tra genere umano e il vivente tutto. Internet, con le sue potenzialità di calcolo, la connessione senza fine di nodi, la non conoscenza di confini, costituisce una impresa cognitiva collettiva che ben esemplifica i concetti/valori di reciprocità e interdipendenza.

L'altruismo come egoismo illuminato “so di essere parte di una comunità e se la comunità sta

meglio sto meglio anche io”. Questa etica della responsabilità, questa consapevole reciprocità con il

vivente, è il senso che vogliamo ritrovare nelle pratiche della nostra vita abbandonando

l'atteggiamento egoistico dove ogni cellula/individuo va per suo conto, magari seguendo dettami

prescrittivi, recuperando un atteggiamento cooperativo, immettendo informazioni coerenti nelle

cellule e negli individui affinché il sistema da malato diventi sano. Il riconoscimento di una

coerente dimensione pubblica richiede una relazione con gli interessi privati, una partecipazione

informata produce una consapevolezza e una responsabilità condivise. Per fronteggiare i nodi che sono venuti al pettine di questa nostra piccola terra dobbiamo curare le cause, non i sintomi: l'ostacolo è costituito dal paradigma scientifico riduzionista combinato con l'approccio utilitarista unilaterale, che riducono i beni comuni a risorse proprietarie contendibili.

Il rinascimento della spiritualità, al di là della formalizzazione nelle/delle religioni, al di là del

riduzionismo quantitativo, ci consentirà delle scelte di valore capaci di riferirsi agli interessi

generali di queste e delle future generazioni, quindi di considerare i beni comuni come diritti

costitutivi inalienabili. La differenziazione culturale e biologica deve tornare ad essere la condizione normale e non l'eccezione residuale.

Occorre una disponibilità piena delle risorse e delle opportunità della società della conoscenza

digitale in luogo della ripetizione cieca e compulsiva di un modello dissipativo di risorse, di

possibilità, di vita, di diritti e di democrazia, così simile al comportamento delle cellule staminali

tumorali mutate, bloccate nella loro capacità di differenziazione, così costrette solo a moltiplicarsi.

L'unica eccezione dell'universo è l'umanità, siamo parte di una unità più grande, l'universo è coerente e noi dobbiamo ritrovare questa coerenza: occorre una evoluzione della coscienza per creare le condizioni per iniziare un viaggio nella consapevolezza

La questione ecologica, dunque, va declinata in maniera diversa a seconda delle varie aree del pianeta. In Nord America, in Scandinavia ci sono dei luoghi in cui la possibilità di un ecosistema ristabilito sta diventando possibile. Vi sono altri luoghi in cui gli ecosistemi hanno più resistito, e altri ancora che invece stanno vivendo in modo accelerato tutti i problemi dell’urbanizzazione dell’età moderna. Abbiamo il problema europeo di qualificare l’esperienza urbana rispetto a degli spazi e dei tempi limitati. Abbiamo poi il problema del Terzo Mondo che chiede di muoversi invece su livelli e su scala molto più ampia: quindi il destino della città è un po' una metafora del destino dei popoli del mondo che quanto più hanno opportunità di interazione l’uno con l’altro, tanto meno questa interazione ha un significato portatore di qualità. Per questo parliamo dei luoghi della cittadinanza planetaria, per arrivare poi a dare corpo, concretizzare i due riferimenti classici dell’ambientalismo: il concetto di locale e globale. Non esiste più un pensare globale e un agire locale, ma si penserà e si agirà su tutti e due i piani incrociati. Questo aspetto introduce quello di comunità, perché il passaggio della crisi della città come luogo dell’innovazione e della contaminazione tra culture e linguaggi è il laboratorio per eccellenza del cosmopolitismo. Invece oggi rischia di essere il luogo dell’ atomizzazione, della crisi di identità, della crisi di ruoli e di funzioni: questo succede spesso in molte città, che si devono ripensare in termini di metropoli regionali, in scala non solo europea, ma nella dimensione planetaria. Devono quindi ripensare al proprio interno quali siano le condizioni che fanno ritornare la città luogo d’eccellenza delle contaminazioni, del laboratorio sociale, culturale, scientifico, quel luogo che offre ad ognuno delle opportunità. Copenhagen si presenta all’appuntamento con la Conferenza sui cambiamenti climatici promossa dalle Nazioni Unite-COP 15 dal 7 al 18 dicembre, con un esempio concreto di città sostenibile. Nord Havn, il vecchio quartiere portuale a nord della città è un cantiere aperto, un buon manifesto della sostenibilità sociale e d ambientale del vivere comune.

180 progettisti, architetti e urbanisti di tutto il mondo hanno partecipato a un concorso internazionale di idee per la realizzazione di un’area di sviluppo urbano per 40.000 abitanti e 40.000 dipendenti, su una superficie totale di 3/4milioni di mq. Ora le idee ed i progetti stanno prendendo forma. Il quartiere è cablato in fibra ottica, attraversato dalla rete a banda larga. E’ un quartiere sull’acqua, un quartiere verde, dove si produce energia rinnovabile per il suo funzionamento. Un quartiere a basso impatto di CO2, dove non circolano automobili ma biciclette. Un quartiere che nasce con la partecipazione informata dei cittadini, a cominciare dai bambini, che vengono coinvolti in laboratori creativi sistemati in grandi cupole gonfiabili o nei container colorati, trasformati in contenitori culturali.

La visita a Nord Havn da parte dei leader del mondo e dei delegati alla conferenza può costituire un’argomentazione molto efficace a sostegno di un accordo collettivo sul clima è un’esperienza bella e forte. Qui c’è uno sforzo collettivo, corale, della municipalità e delle persone, un’idea di comunità aperta nella quale ognuno può dare il proprio contributo e può ricevere in cambio una qualità migliore del vivere sociale.

Un altro modo di vivere il mondo è possibile dunque.

Innovazione, Internet e Società della Conoscenza, il futuro è adesso

Nel 2000 con l’”Agenda di Lisbona” il Consiglio d’Europa si era posto l’obbiettivo di fare dell’Europa “ la più competitiva e dinamica economia basata sulla conoscenza al mondo” entro il 2010. Una proposta tempestiva e un obbiettivo ambizioso relativamente ai quali l’Italia non ha espresso lungo questi dieci anni una politica adeguata. Manca una cultura che sappia interpretare la Rete e la pervasività digitale per quello che sono. Si considera Internet come lo stadio più avanzato di un processo lineare che parte con il telegrafo, prosegue con il telefono, la radio, la televisione e arriva al computer sul tavolo, laddove al contrario costituiscono un ecosistema cognitivo fondamentale per la produzione di valore, per la partecipazione e per l’apprendimento. L’Italia non dispone di una cultura per i processi di innovazione in grado di produrre un senso comune dell’agire collettivo in questo delicato passaggio d’epoca. Assistiamo ad iniziative puntuali che si scontrano con un quadro normativo obsoleto e con logiche omeostatiche dovute agli interessi e alle rendite di posizione legati a modelli industriali e post-industriali turbati, sollecitati e travolti dall’evoluzione innovativa in atto. La nuova impresa cognitiva collettiva costituita dalla cooperazione in rete non costituisce un blocco sociale consapevole, per questo non vi è una definizione sistematica di domande e bisogni. Così non vi sono modalità di rappresentanza e procedure di negoziazione per contribuire alla definizione di una politica pubblica adeguata. Al contrario di quello che esprimono le soggettività organizzate dei modelli produttivi del secolo scorso. Questo spiega perché per via normativa si vogliono ricreare le condizioni di scarsità, mediazione e controllo che l’interazione immateriale/digitale della rete ha messo in discussione e superato. Un libro contenente un romanzo prima della Rete se lo cedevamo a qualsiasi titolo (regalo, prestito, rivendita) noi ne restavamo senza, nella dimensione digitale interconnessa si libera il contenuto dal supporto fisico e dai suoi limiti, consentendone una condivisione illimitata, in una realtà asincrona e non vincolata a rigidità spazio-temporali. Qui c’è bisogno della politica capace di proporre alla società di partecipare come comunità al cambiamento in atto, di armonizzare gli interessi analogico-materiali esistenti con quelli emergenti e possibili: una politica capace di futuro è quella che non ne preclude le possibilità. Se le stringhe di algoritmi, l’alfabeto e la grammatica digitali, fossero brevettate, se ci fosse un unico sistema operativo per fare funzionare la rete globale di computer, la creazione di valore, lo sviluppo, l’evoluzione o la sua implosione, sarebbero esclusivamente legati alle sue potenzialità, ai suoi limiti e alla sua vulnerabilità. C’è la necessità della politica per adeguare la dimensione normativa, per una certezza del diritto, per adeguare quella formativa per un apprendimento multicanale, per quella quella sociale per un welfare che liberi la flessibilità dalla precarietà. Il sapere, e di conseguenza la conoscenza, è la materia prima delle nuove forme di produzione ed accumulazione della ricchezza nelle economie avanzate, caratterizzate da terziarizzazione (di merci e servizi) e finanziarizzazione dei mercati. Il sapere è anche quello incorporato nelle macchine informatiche e prodotto dalla ricerca, di base ed applicata, pubblico e privato. Un sapere “disembodied”, sganciato dal suo referente oggettivo immediato, che può diventare merce. La recente storia del copyright e dei brevetti (principale interfaccia normativa fra il sapere sociale e la moderna produzione di merci) mostra come questo sapere sia sottoposto a veri e propri processi di “enclosure”: il primo a subire il contraccolpo e a reagire è stato proprio il software, ma la stessa logica è reperibile nel settore farmaceutico o in quello dell’apprendimento a distanza.

Questo sapere, inteso sia come asset che come strumento produttivo, viene irregimentato attraverso l’appropriazione privata dei codici in cui viene formalizzato e scambiato, dislocato nel tempo e nello spazio: i codici culturali (come testi scientifici e software) e i codici della vita (il genoma e le sequenze proteiche). Un welfare cognitivo dovrà rispondere a due fondamentali domande: 1. come questi codici possano essere tutelati e valorizzati 2. come questi codici possano essere condivisi.

Il problema va affrontato e risolto prima di tutto da un punto di vista normativo e legale: una riforma dell’assetto legale della proprietà intellettuale come oggi la conosciamo e che riconosca il valore e lo statuto di Commons (bene pubblico) universale, non rivale e non esclusivo della conoscenza. Internet consente e richiede la realizzazione di archivi aperti e pubblici degli strumenti didattici e dei risultati della ricerca scientifica a finanziamento. In un welfare cognitivo sono centrali quelle che potremmo definire le “fabbriche del sapere”, scuole, università e centri di ricerca in primo luogo. In questa direzione diventano fondamentali la questione dell’accesso alla formazione e all’istruzione avanzate, il sostegno attivo alla ricerca e alla produzione del sapere. È necessario riuscire a trasformare la conoscenza in innovazione: a questo scopo di dovrà pertanto ristabilire il ruolo di punta dei centri di produzione del sapere, a partire dalle Università; trasferire il sapere dall’Università all’industria e viceversa; garantire e facilitare l’osmosi fra produzione intellettuale ed applicazione commerciale e pubblica. D’altro canto, il cambiamento nel processo di produzione del lavoro modifica il sistema dei rapporti di lavoro: si aggiungono nuovi diritti da tutelare e nuove opportunità da agevolare con una coerente evoluzione del sistema delle garanzie e dei diritti. Tre sono i temi che emergono in tutta la loro cogenza: il reddito, il tempo del lavoro e la questione abitativa. Servono anche e soprattutto nuovi strumenti quali il Reddito di Formazione: il tempo per crescere, formarsi, aggiornarsi, in un mercato del lavoro flessibile, è una necessità di sistema oltre che un diritto di cittadinanza. Per questo è necessario immaginare strumenti che consentano ai lavoratori flessibili, soprattutto nelle filiere della produzione immateriale: da un lato un reddito legato all'aggiornamento e alla ricollocazione sul Mercato del Lavoro, dall'altro a un uso diverso del tempo anche durante i periodi di occupazione, permettendo davvero fasi di aggiornamento e crescita culturale e professionale, con la consapevolezza che i tentativi di riprodurre meccanismi consolidati si infrangono contro le mutate condizioni del sistema produttivo. Il tema della casa diventa parte integrante di un sistema territoriale qualitativo, cioè di un retroterra diversificato e capace di essere in relazione globale. Si investono tempo ed energie per estendere la normativa sulla Proprietà Intellettuale, per affinità, presunta, con processi di produzione di merci materiali. Con la riduzione degli alfabeti ad una disponibilità proprietaria è a rischio la libertà di narrazione, di comunicazione, naturale o culturale, quindi di conoscenza: la libertà di espressione e di creazione culturale e colturale avverrà entro i limiti consentiti dagli standard proprietari pre-definiti. In gioco è quindi lo statuto della proprietà della conoscenza: cioè se essa costituisce un bene universale, cioè un "commons" per le attuali e future generazioni, per questo inalienabile, o se la sua condizione e la sua natura devono essere definite da chi, con le buone e con le cattive, riesce a metterle sotto chiave. Nella rete di Internet, dove ognuno diventa, nello stesso tempo, produttore e consumatore di informazione si esercita potere solo se si controlla il modo in cui si produce e si riceve il senso della comunicazione stessa. I processi mentali, le possibilità cognitive, non possono vivere una limitazione qualitativa dovuta ad una costrizione di mezzi\metodi univoci ed unidirezionali: nella impostazione del trattamento di determinati problemi certi programmi hanno impostazioni logiche che possono piegare in modo inaspettato ed indesiderato le nostre domande, indipendentemente dalla nostra volontà. Risultano quindi più efficaci, nella società della conoscenza, modelli di relazione cognitiva basati su standard aperti e processi produttivi condivisi. . Il Parlamento, di legislatura in legislatura, è impegnato da proposte e disegni che non vedono la Rete come uno spazio pubblico di dimensioni mai conosciute e le piattaforme sociali come straordinari strumenti di condivisione. Invece di pensare a nuovi modelli commerciali, come ha dimostrato Steve Jobs con I-Tune e IPod, capaci di valorizzare lo scambio e l’implementazione di applicazioni e contenuti, si guarda alla Rete con lenti deformanti. Per questo laddove c’è un processo interattivo si vede al contrario una modalità di comunicazione broadcast. Non a caso, quindi, si succedono proposte che riducono siti web e social network a canali televisivi nei quali c’è un direttore dei programmi che risponde dei palinsesti. In rete invece,ognuno mette nell’acqua i pesci che vuole e sceglie quali prendere e quando, mentre si propone di trasformare i netizen in direttori responsabili invece che richiamare ognuno alla responsabilità individuale come negli States. Come il postino non è ritenuto responsabile del contenuto delle lettere che consegna, né l’autista del mezzo pubblico delle eventuali molestie ai passeggeri, così dovrebbe essere per gli operatori intermediari ed i fornitori di connettività e piattaforme che invece si vorrebbero responsabili nonché impegnati nel filtraggio e sorveglianza dei contenuti scambiati. Di legislatura in legislatura si succedono i comitati per la riforma del diritto d’autore i cui risultati non vengono presi in considerazione dall’attività legislativa, tutta presa dall’equiparazione del peer to peer non commerciale alla contraffazione. Mentre il Parlamento, nel nome del sostegno a settori industriali è distratto o peggio, vedi la nuova disciplina sul telemarketing, relativamente alle possibilità di tracciabilità, profilazione, previsionalità, delle nostre identità, una questione che estende enormemente il concetto di Privacy. Così come non ha utilizzato il “Rapporto Caio” sull’infrastruttura a Banda Larga per non disturbare l’Incumbent nazionale invece di proporre una public company partecipata da chi ha reti e da chi ha cavidotti, dando ad AGCOM autorevolezza e poteri necessari. Creando in tal modo condizioni non discriminatorie per la neutralità della Rete. La conoscenza nell'era digitale è caratterizzata e prodotta da contesti tecnologici e normativi che ne garantiscano e ne favoriscano le condizioni per la creatività. Le contaminazioni e le combinazioni possibili, e ancora non immaginabili, sono la modalità della produzione creativa. Conoscenza e creatività, a differenza delle materie prime, non possono essere consumate ma hanno la prerogativa di aumentare quanto più circolano e quanto più vengono condivise e distribuite. Sarebbe utile garantire tutele differenziate a seconda del prodotto o del processo, ipotizzare libere utilizzazioni per fini non profit. Una nuova frontiera per la giurisprudenza e per i parlamenti risiede nel riconoscere le conoscenze prodotte in ambiti pubblici (Università e Centri di Ricerca ) come patrimonio pubblico universale non disponibile e non riducibile ad alcuna privatizzazione. Per questo il World Summit on Information Society promosso dall'ONU che ora prosegue come Internet Governance Forum, ha posto al centro dei suo lavori e delle sue risoluzioni i temi dell'Access, dell'Openess, della Security e della Multiculturalità. Considerando così beni universali, dei quali garantire la disponibilità a queste e alle future generazioni, la questione della proprietà pubblica della conoscenza, della disponibilità degli alfabeti, del controllo dei processi delle filiere produttive o della medicina rispetto ai nostri corpi. Oggi più che mai la politica pubblica viene sollecitata a insistere sulla scelta dell'Innovazione come un elemento essenziale per la nuova fase del ciclo economico. Occorre che la politica riconosca l'Innovazione, intesa nel senso ampio del termine, quale "asset" strategico e non tattico per la definizione del contesto di vita sociale, economico e ambientale. Affrontare il nodo dell'Innovazione non significa solo aggiungere qualche risorsa nella ricerca di base e defiscalizzare la ricerca applicata, ma ridefinire trasversalmente il sistema istituzionale e normativo, parlare di innovazione senza affrontare le questioni della partecipazione, dell'innovazione tecnologica del sistema, delle infrastrutture della comunicazione digitale e analogica, della filiera formativa, del sistema della ricerca di base, dei nuovi diritti del lavoro e conseguentemente del welfare nell'ambito del lavoro cognitivo, significa ritenere erroneamente che la Società della Conoscenza richieda una competenza in più da giustapporre a quanto già esistente, senza che questa vada ad intaccare i diversi settori consolidati. E' un limite di approccio, che abbiamo già visto con la questione ambientale ed ecologica, ritenere che fosse sufficiente costruire gli assessorati o i ministeri dell'Ambiente e delegare ad essi una questione strutturalmente trasversale. L’innovazione è un processo in grado di innescare sviluppo e richiede un’azione di governance del territorio, focalizzandosi su tre elementi: modello dei sistemi regionali di innovazione, vocazioni territoriali, trasferimento tecnologico. Il trasferimento tecnologico coinvolge strettamente università, centri di ricerca e centri di formazione. A tal fine si dovranno creare centri di competenza all’interno delle università e dei centri di territorio, soggetti dedicati al trasferimento tecnologico in coordinamento con le università, con funzione di catalizzatori degli eventi e di coordinatori dell’interazione ricerca-impresa-istituzioni-mondo centri di ricerca e innovazione. Gli stessi laboratori, quali centri di eccellenza devono innovare i propri processi relazionali al fine di divenire il luogo di incontro fra ricerca e impresa per favorire la nascita delle sturt-up, rinnovando il sistema degli incubatori di imprese. Il processo in atto attiva una relazione locale/globale che richiede tanto un modello di sviluppo e di governo dell’innovazione, quanto del territorio: le azioni trovano una coerenza organica con le politiche e la riorganizzazione delle reti locali ed una forte interrelazione con l’idea di innovazione di processo. Per poter agire nello scenario globale connesso e prodotto dalla rete digitale, per poter operare nei "distretti virtuali" che si definiscono a geometria variabile nel mondo, occorre avere un solido e composito retroterra territoriale, nel quale la qualità ambientale, la qualità dei servizi, la qualità delle infrastrutture, la qualità amministrativa, la qualità abitativa diventano fattori abilitanti nel processo di innovazione. È necessario utilizzare la logica del riuso, dell’integrazione, della valorizzazione dell’esistente nella sua differenziazione, così è necessario condividere e trasferire i risultati, favorire il coordinamento attraverso processi di governance verticale ed orizzontale. L’Agenzia per l’Innovazione sembrava uno strumento funzionale a questo processo, ma che fine ha fatto?