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lunedì 25 gennaio 2010

Innovazione, Internet e Società della Conoscenza, il futuro è adesso

Nel 2000 con l’”Agenda di Lisbona” il Consiglio d’Europa si era posto l’obbiettivo di fare dell’Europa “ la più competitiva e dinamica economia basata sulla conoscenza al mondo” entro il 2010. Una proposta tempestiva e un obbiettivo ambizioso relativamente ai quali l’Italia non ha espresso lungo questi dieci anni una politica adeguata. Manca una cultura che sappia interpretare la Rete e la pervasività digitale per quello che sono. Si considera Internet come lo stadio più avanzato di un processo lineare che parte con il telegrafo, prosegue con il telefono, la radio, la televisione e arriva al computer sul tavolo, laddove al contrario costituiscono un ecosistema cognitivo fondamentale per la produzione di valore, per la partecipazione e per l’apprendimento. L’Italia non dispone di una cultura per i processi di innovazione in grado di produrre un senso comune dell’agire collettivo in questo delicato passaggio d’epoca. Assistiamo ad iniziative puntuali che si scontrano con un quadro normativo obsoleto e con logiche omeostatiche dovute agli interessi e alle rendite di posizione legati a modelli industriali e post-industriali turbati, sollecitati e travolti dall’evoluzione innovativa in atto. La nuova impresa cognitiva collettiva costituita dalla cooperazione in rete non costituisce un blocco sociale consapevole, per questo non vi è una definizione sistematica di domande e bisogni. Così non vi sono modalità di rappresentanza e procedure di negoziazione per contribuire alla definizione di una politica pubblica adeguata. Al contrario di quello che esprimono le soggettività organizzate dei modelli produttivi del secolo scorso. Questo spiega perché per via normativa si vogliono ricreare le condizioni di scarsità, mediazione e controllo che l’interazione immateriale/digitale della rete ha messo in discussione e superato. Un libro contenente un romanzo prima della Rete se lo cedevamo a qualsiasi titolo (regalo, prestito, rivendita) noi ne restavamo senza, nella dimensione digitale interconnessa si libera il contenuto dal supporto fisico e dai suoi limiti, consentendone una condivisione illimitata, in una realtà asincrona e non vincolata a rigidità spazio-temporali. Qui c’è bisogno della politica capace di proporre alla società di partecipare come comunità al cambiamento in atto, di armonizzare gli interessi analogico-materiali esistenti con quelli emergenti e possibili: una politica capace di futuro è quella che non ne preclude le possibilità. Se le stringhe di algoritmi, l’alfabeto e la grammatica digitali, fossero brevettate, se ci fosse un unico sistema operativo per fare funzionare la rete globale di computer, la creazione di valore, lo sviluppo, l’evoluzione o la sua implosione, sarebbero esclusivamente legati alle sue potenzialità, ai suoi limiti e alla sua vulnerabilità. C’è la necessità della politica per adeguare la dimensione normativa, per una certezza del diritto, per adeguare quella formativa per un apprendimento multicanale, per quella quella sociale per un welfare che liberi la flessibilità dalla precarietà. Il sapere, e di conseguenza la conoscenza, è la materia prima delle nuove forme di produzione ed accumulazione della ricchezza nelle economie avanzate, caratterizzate da terziarizzazione (di merci e servizi) e finanziarizzazione dei mercati. Il sapere è anche quello incorporato nelle macchine informatiche e prodotto dalla ricerca, di base ed applicata, pubblico e privato. Un sapere “disembodied”, sganciato dal suo referente oggettivo immediato, che può diventare merce. La recente storia del copyright e dei brevetti (principale interfaccia normativa fra il sapere sociale e la moderna produzione di merci) mostra come questo sapere sia sottoposto a veri e propri processi di “enclosure”: il primo a subire il contraccolpo e a reagire è stato proprio il software, ma la stessa logica è reperibile nel settore farmaceutico o in quello dell’apprendimento a distanza.

Questo sapere, inteso sia come asset che come strumento produttivo, viene irregimentato attraverso l’appropriazione privata dei codici in cui viene formalizzato e scambiato, dislocato nel tempo e nello spazio: i codici culturali (come testi scientifici e software) e i codici della vita (il genoma e le sequenze proteiche). Un welfare cognitivo dovrà rispondere a due fondamentali domande: 1. come questi codici possano essere tutelati e valorizzati 2. come questi codici possano essere condivisi.

Il problema va affrontato e risolto prima di tutto da un punto di vista normativo e legale: una riforma dell’assetto legale della proprietà intellettuale come oggi la conosciamo e che riconosca il valore e lo statuto di Commons (bene pubblico) universale, non rivale e non esclusivo della conoscenza. Internet consente e richiede la realizzazione di archivi aperti e pubblici degli strumenti didattici e dei risultati della ricerca scientifica a finanziamento. In un welfare cognitivo sono centrali quelle che potremmo definire le “fabbriche del sapere”, scuole, università e centri di ricerca in primo luogo. In questa direzione diventano fondamentali la questione dell’accesso alla formazione e all’istruzione avanzate, il sostegno attivo alla ricerca e alla produzione del sapere. È necessario riuscire a trasformare la conoscenza in innovazione: a questo scopo di dovrà pertanto ristabilire il ruolo di punta dei centri di produzione del sapere, a partire dalle Università; trasferire il sapere dall’Università all’industria e viceversa; garantire e facilitare l’osmosi fra produzione intellettuale ed applicazione commerciale e pubblica. D’altro canto, il cambiamento nel processo di produzione del lavoro modifica il sistema dei rapporti di lavoro: si aggiungono nuovi diritti da tutelare e nuove opportunità da agevolare con una coerente evoluzione del sistema delle garanzie e dei diritti. Tre sono i temi che emergono in tutta la loro cogenza: il reddito, il tempo del lavoro e la questione abitativa. Servono anche e soprattutto nuovi strumenti quali il Reddito di Formazione: il tempo per crescere, formarsi, aggiornarsi, in un mercato del lavoro flessibile, è una necessità di sistema oltre che un diritto di cittadinanza. Per questo è necessario immaginare strumenti che consentano ai lavoratori flessibili, soprattutto nelle filiere della produzione immateriale: da un lato un reddito legato all'aggiornamento e alla ricollocazione sul Mercato del Lavoro, dall'altro a un uso diverso del tempo anche durante i periodi di occupazione, permettendo davvero fasi di aggiornamento e crescita culturale e professionale, con la consapevolezza che i tentativi di riprodurre meccanismi consolidati si infrangono contro le mutate condizioni del sistema produttivo. Il tema della casa diventa parte integrante di un sistema territoriale qualitativo, cioè di un retroterra diversificato e capace di essere in relazione globale. Si investono tempo ed energie per estendere la normativa sulla Proprietà Intellettuale, per affinità, presunta, con processi di produzione di merci materiali. Con la riduzione degli alfabeti ad una disponibilità proprietaria è a rischio la libertà di narrazione, di comunicazione, naturale o culturale, quindi di conoscenza: la libertà di espressione e di creazione culturale e colturale avverrà entro i limiti consentiti dagli standard proprietari pre-definiti. In gioco è quindi lo statuto della proprietà della conoscenza: cioè se essa costituisce un bene universale, cioè un "commons" per le attuali e future generazioni, per questo inalienabile, o se la sua condizione e la sua natura devono essere definite da chi, con le buone e con le cattive, riesce a metterle sotto chiave. Nella rete di Internet, dove ognuno diventa, nello stesso tempo, produttore e consumatore di informazione si esercita potere solo se si controlla il modo in cui si produce e si riceve il senso della comunicazione stessa. I processi mentali, le possibilità cognitive, non possono vivere una limitazione qualitativa dovuta ad una costrizione di mezzi\metodi univoci ed unidirezionali: nella impostazione del trattamento di determinati problemi certi programmi hanno impostazioni logiche che possono piegare in modo inaspettato ed indesiderato le nostre domande, indipendentemente dalla nostra volontà. Risultano quindi più efficaci, nella società della conoscenza, modelli di relazione cognitiva basati su standard aperti e processi produttivi condivisi. . Il Parlamento, di legislatura in legislatura, è impegnato da proposte e disegni che non vedono la Rete come uno spazio pubblico di dimensioni mai conosciute e le piattaforme sociali come straordinari strumenti di condivisione. Invece di pensare a nuovi modelli commerciali, come ha dimostrato Steve Jobs con I-Tune e IPod, capaci di valorizzare lo scambio e l’implementazione di applicazioni e contenuti, si guarda alla Rete con lenti deformanti. Per questo laddove c’è un processo interattivo si vede al contrario una modalità di comunicazione broadcast. Non a caso, quindi, si succedono proposte che riducono siti web e social network a canali televisivi nei quali c’è un direttore dei programmi che risponde dei palinsesti. In rete invece,ognuno mette nell’acqua i pesci che vuole e sceglie quali prendere e quando, mentre si propone di trasformare i netizen in direttori responsabili invece che richiamare ognuno alla responsabilità individuale come negli States. Come il postino non è ritenuto responsabile del contenuto delle lettere che consegna, né l’autista del mezzo pubblico delle eventuali molestie ai passeggeri, così dovrebbe essere per gli operatori intermediari ed i fornitori di connettività e piattaforme che invece si vorrebbero responsabili nonché impegnati nel filtraggio e sorveglianza dei contenuti scambiati. Di legislatura in legislatura si succedono i comitati per la riforma del diritto d’autore i cui risultati non vengono presi in considerazione dall’attività legislativa, tutta presa dall’equiparazione del peer to peer non commerciale alla contraffazione. Mentre il Parlamento, nel nome del sostegno a settori industriali è distratto o peggio, vedi la nuova disciplina sul telemarketing, relativamente alle possibilità di tracciabilità, profilazione, previsionalità, delle nostre identità, una questione che estende enormemente il concetto di Privacy. Così come non ha utilizzato il “Rapporto Caio” sull’infrastruttura a Banda Larga per non disturbare l’Incumbent nazionale invece di proporre una public company partecipata da chi ha reti e da chi ha cavidotti, dando ad AGCOM autorevolezza e poteri necessari. Creando in tal modo condizioni non discriminatorie per la neutralità della Rete. La conoscenza nell'era digitale è caratterizzata e prodotta da contesti tecnologici e normativi che ne garantiscano e ne favoriscano le condizioni per la creatività. Le contaminazioni e le combinazioni possibili, e ancora non immaginabili, sono la modalità della produzione creativa. Conoscenza e creatività, a differenza delle materie prime, non possono essere consumate ma hanno la prerogativa di aumentare quanto più circolano e quanto più vengono condivise e distribuite. Sarebbe utile garantire tutele differenziate a seconda del prodotto o del processo, ipotizzare libere utilizzazioni per fini non profit. Una nuova frontiera per la giurisprudenza e per i parlamenti risiede nel riconoscere le conoscenze prodotte in ambiti pubblici (Università e Centri di Ricerca ) come patrimonio pubblico universale non disponibile e non riducibile ad alcuna privatizzazione. Per questo il World Summit on Information Society promosso dall'ONU che ora prosegue come Internet Governance Forum, ha posto al centro dei suo lavori e delle sue risoluzioni i temi dell'Access, dell'Openess, della Security e della Multiculturalità. Considerando così beni universali, dei quali garantire la disponibilità a queste e alle future generazioni, la questione della proprietà pubblica della conoscenza, della disponibilità degli alfabeti, del controllo dei processi delle filiere produttive o della medicina rispetto ai nostri corpi. Oggi più che mai la politica pubblica viene sollecitata a insistere sulla scelta dell'Innovazione come un elemento essenziale per la nuova fase del ciclo economico. Occorre che la politica riconosca l'Innovazione, intesa nel senso ampio del termine, quale "asset" strategico e non tattico per la definizione del contesto di vita sociale, economico e ambientale. Affrontare il nodo dell'Innovazione non significa solo aggiungere qualche risorsa nella ricerca di base e defiscalizzare la ricerca applicata, ma ridefinire trasversalmente il sistema istituzionale e normativo, parlare di innovazione senza affrontare le questioni della partecipazione, dell'innovazione tecnologica del sistema, delle infrastrutture della comunicazione digitale e analogica, della filiera formativa, del sistema della ricerca di base, dei nuovi diritti del lavoro e conseguentemente del welfare nell'ambito del lavoro cognitivo, significa ritenere erroneamente che la Società della Conoscenza richieda una competenza in più da giustapporre a quanto già esistente, senza che questa vada ad intaccare i diversi settori consolidati. E' un limite di approccio, che abbiamo già visto con la questione ambientale ed ecologica, ritenere che fosse sufficiente costruire gli assessorati o i ministeri dell'Ambiente e delegare ad essi una questione strutturalmente trasversale. L’innovazione è un processo in grado di innescare sviluppo e richiede un’azione di governance del territorio, focalizzandosi su tre elementi: modello dei sistemi regionali di innovazione, vocazioni territoriali, trasferimento tecnologico. Il trasferimento tecnologico coinvolge strettamente università, centri di ricerca e centri di formazione. A tal fine si dovranno creare centri di competenza all’interno delle università e dei centri di territorio, soggetti dedicati al trasferimento tecnologico in coordinamento con le università, con funzione di catalizzatori degli eventi e di coordinatori dell’interazione ricerca-impresa-istituzioni-mondo centri di ricerca e innovazione. Gli stessi laboratori, quali centri di eccellenza devono innovare i propri processi relazionali al fine di divenire il luogo di incontro fra ricerca e impresa per favorire la nascita delle sturt-up, rinnovando il sistema degli incubatori di imprese. Il processo in atto attiva una relazione locale/globale che richiede tanto un modello di sviluppo e di governo dell’innovazione, quanto del territorio: le azioni trovano una coerenza organica con le politiche e la riorganizzazione delle reti locali ed una forte interrelazione con l’idea di innovazione di processo. Per poter agire nello scenario globale connesso e prodotto dalla rete digitale, per poter operare nei "distretti virtuali" che si definiscono a geometria variabile nel mondo, occorre avere un solido e composito retroterra territoriale, nel quale la qualità ambientale, la qualità dei servizi, la qualità delle infrastrutture, la qualità amministrativa, la qualità abitativa diventano fattori abilitanti nel processo di innovazione. È necessario utilizzare la logica del riuso, dell’integrazione, della valorizzazione dell’esistente nella sua differenziazione, così è necessario condividere e trasferire i risultati, favorire il coordinamento attraverso processi di governance verticale ed orizzontale. L’Agenzia per l’Innovazione sembrava uno strumento funzionale a questo processo, ma che fine ha fatto?

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