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martedì 23 marzo 2010

LAMBRO: NASCONDERE LA VERITÀ


Il passare delle settimane allontana dai palinsesti radiotelevisivi e dalle pagine dei giornali il disastro dello sversamento d’idrocarburi della Lombarda Petroli nel Lambro. E’ il momento di spostare l’attenzione dalle acque, dell’Adriatico, del Po e del lambro, alle carte delle certificazioni e delle classificazioni, ai criteri che presiedono i loro contenuti e a chi li ha compilati. Qui le cose non sono più chiare delle acque inquinate. Il Fiume Lambro rappresenta da decenni una delle principali sorgenti d’inquinamento antropico lungo il corso del Fiume Po. Gli studi condotti dall’Istituto di Ricerca Sulle Acque (IRSA)-CNR fin dalla metà degli anni settanta hanno contribuito prima a identificare e poi a quantificare il fenomeno, fissando per il Lambro in circa il 30% il contributo al carico totale d’inquinanti che viene veicolato dal grande fiume padano nel Mare Adriatico. Ora un nuovo disastro, dopo i miglioramenti dal punto di vista della salubrità ambientale verificatisi nell’ultimo ventennio. Per ricapitolare partiamo dai dati. Franco Picco, direttore generale di Arpa Lombardia, ha fornito i dati sull’entità dello sversamento. state sversate 2600 tonnellate d’idrocarburi, 1800 di gasolio e 800 di olio combustibile. Circa 2.200 tonnellate sono state recuperate nella tratta compresa tra Monza e Isola Serafini, sul Po. In particolare, circa 1250 tonnellate sono state trattenute dal depuratore di Monza, circa 300 recuperate dai piazzali di Lombarda Petroli e altre 100 recuperate dalle barriere sul Lambro realizzate per l’emergenza. 450 tonnellate sono state recuperate allo sbarramento di Isola Serafini (Po), altre 100 sono state raccolte in assorbimento dalle barriere sul Lambro e da quelle realizzate sul Po. Diverse sono le cifre fornite da Attilio Rinaldi, l’oceanografo che per la Regione Emilia sta monitorando l’arrivo in mare degli inquinanti. «Circa 3.600 tonnellate d’idrocarburi, metà gasolio e metà olio combustibile».

Un ammontare ancora non quantificato è sicuramente stato depositato sulle rive e i fondali del Lambro e del Po. Il CNR rileva che ci sarà un impatto inevitabile per il Mare Adriatico, l’ecosistema recettore finale perché l’interruzione per alcune settimane dell’operatività dell’impianto ALSI di San Rocco determinerà lo sversamento non depurato dei reflui urbani di circa settecentomila abitanti, con la formazione di un carico in eccesso di nutrienti che giungeranno alla foce del Fiume Po in un momento, l’inizio della primavera, durante il quale si hanno le prime fioriture algali. Vi è una certa possibilità che si possano verificare situazioni di fioriture al di fuori della norma, con conseguenze anche sull’ecosistema marino prospiciente la foce del Po. Il coordinamento dell’emergenza non ha funzionato al meglio: le Province hanno una lista di ditte da contattare per il pronto intervento. Nel caso, erano ditte di spurgo. Per incomprensioni su chi dovesse pagare e quanto, gli interventi di queste ditte sarebbero cominciate con grave ritardo. Inoltre, per circoscrivere l’inquinamento, sono state utilizzate in primo luogo le stesse panne che si utilizzano in mare.

Un errore, secondo i tecnici che sottolineano come sia la corrente del fiume che la composizione stessa degli inquinanti rendano inutile il ricorso a tecniche che si utilizzano nei porti per arrestare le chiazze oleose superficiali. Ezio Amato, coordinatore del Servizio emergenze ambientali in mare dell’Ispra ha affermato che «Il sistema della difesa ambientale non ha avuto una parte centrale nella gestione dell’emergenza, c’è almeno per metà olio combustibile e che occorrerà fare una bonifica delle rive e dei canneti, per salvaguardare gli ecosistemi e la salute ambientale». Chi e come gestisce la salute del più grande fiume italiano e del suo bacino?

Preoccupa la mancanza di una regia comune nella gestione di questa emergenza ambientale, sul più grande fiume italiano, la Protezione civile ha avuto la gestione totale della situazione e il ministero dell’ambiente ha un ruolo di risulta.

In ogni caso, “a prescindere” dalla composizione degli inquinanti, 1000 tonnellate non sono una differenza da poco tra le rilevazioni ARPA e quelle della regione Emilia Romagna, visto che la Lombarda Petroli era stata cancellata dall’elenco delle aziende a rischio rilevante dalla commissione Ministeriale preposta, composta da personale dei Vigili del Fuoco, dell’Arpa e dell’Ispels che ha effettuato, secondo il direttore dell’ARPA Lombardia, tutti i lunghi e laboriosi controlli previsti dalla normativa. Questa commissione, che risponde al ministero dell’Ambiente, ha recepito la domanda di declassamento motivata dal fatto che l’azienda non avrebbe stoccato più di 2500 tonnellate di gasolio, che è appunto la soglia di legge. Così dal 24 febbraio 2009 la Lombarda Petroli è stata ricondotta tra le 800.000 mila e più ‘normali’ imprese operanti in Lombardia soggetta a verifiche periodiche da parte dell’UTIF, l’organismo statale che controlla i quantitativi e gli aspetti fiscali degli idrocarburi. L’UTIF- Ufficio Tecnico Imposte di Fabbricazione l’organismo statale che controlla i quantitativi e gli aspetti fiscali degli idrocarburi. . Nell’autocertificazione l’azienda ha affermato che nell’impianto erano presenti quantità d’idrocarburi inferiori a quelle previste per l’inserimento dell’impianto tra quelli “a rischio d’incidente rilevante”.

«I conti non tornano nel declassamento della “Lombarda Petroli” nelle categorie di rischio previste dalla Direttiva Seveso» afferma il Ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo.

«Ho disposto una indagine interna per chiarire come sia avvenuto tale declassamento e se i dati relativi sono compatibili con quanto accaduto, alla luce delle quantità di idrocarburi recuperate». I registri delle imposte, acquisiti dalla Procura, dicono che vi fosse sproporzione tra le tonnellate di olio e gasolio svuotate dai camion alla Lombarda Petroli e le tonnellate che partivano dalla ditta. Ci sarebbe stato il superamento dei 2.500 metri cubi nelle cisterne, il massimo consentito per la Lombarda Petroli da quando non faceva più parte della direttiva Seveso. La direttiva prevede una serie di adempimenti burocratici e finanziari, di misure di sicurezza e di controlli obbligatori. I documenti acquisiti dai magistrati sono quelli analizzati dall’Utif. Le eventuali eccedenze dove sono finite? Come sono stati fatti i controlli?

Al di là delle verifiche degli adempimenti fiscali chi ha controllato le autocertificazioni? Laddove fossero corrisposte non erano poi più previsti controlli, magari a sorpresa, magari sul carico portato dalle autobotti e quello portato via? Al di là della confusione della gestione emergenziale e dell’impatto ambientale ex post è evidente che manca un’azione ex ante per la verifica e il controllo delle aziende a rischio rilevante. E pensare che nella sola Lombardia, a seguito della crisi del settore dovuta alla recessione, sono più di 50 le aziende che hanno seguito la procedura di declassamento come la Lombarda Petroli.

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