Vivere il distanziamento sociale nella città di Giorgio Gaber che ha declinato la libertà come partecipazione è certamente straniante, per questo lo sguardo di una brava autrice che racconta storie a Milano e di Milano è prezioso.
Ho conosciuto Sumaya Abdel Qader grazie a Don Piero, parroco della parrocchia di San Crisostomo, in via Padova, vicino al Parco Trotter, a Milano.
Sumaya era la Vice Presidente dell'Associazione dei Giovani Musulmani d'Italia e con la sua comunità, insieme a quella di don Piero, si trovavano la domenica nella parrocco per cucinare assieme i piatti appartenenti alle reciproche tradizioni.
Erano i primi anni 2000 e il processo di integrazione delle comunità dei migranti, in particolare di quella musulmana, conosceva le sue difficoltà. Sollecitata dalla necessità di adattamento culturale in una repubblica democratica, in una terra che aveva conosciuto l'Illuminismo prima e il Concilio Vaticano II poi, e dalla reazione al 'diverso da te' proposta come alterità assoluta dalla retorica della Piccola Patria Padana.
Essere invitato a uno dei pranzi domenicali multietnici in parrocchia mi ha permesso di conoscere un mondo di rispetto, di comunicazione e di integrazione tra differenti percorsi e culture. Condividere in seguito convivialità, a pranzo, con Sumaya e altri della sua associazione in uno dei locali della zona, mi ha consentito di apprezzare lo spessore culturale e la dignità di questi giovani milanesi.
Non mi ha perciò sorpreso, nel corso degli anni successivi, leggere le sue pubbliche dichiarazioni puntuali e ho trovato logico il compimento politico del suo esercizio di cittadinanza con la candidatura e l'elezione in Consiglio Comunale.
Ho quindi letto il romanzo di Sumaya Abdel Qader 'Quello che abbiamo in testa' a partire da questo pregresso.
Nelle vicende di Horra, che significa Libera, della sua famiglia, con marito e figlie, con il gruppo delle sue amiche, musulmane e non, con l'avvocato dello studio legale presso il quale lavora, ci sono la tenacia, l'ironia,l'affermazione piena di una cittadinanza condivisa come ecologia delle differenze. C'è una lezione di libertà dalle costrizioni di qualsivoglia integralismo e degli uomini che se ne fanno vestali, c'è un Imam che si rivela un interlocutore saggio e determinato a dare corpo a questa lezione. Sopratutto c'è il lucido e ambizioso esercizio della complicità e della identità femminile che, con la forza della sua rete di relazioni, apre crepe anche nei castelli più rigidi e consente nuovi sguardi aldilà dei pregiudizi e della ignoranza dei mondi della contiguità urbana, giudicati spesso da cosa indossa o mette in testa.
Così, intorno a Piazzale Loreto, alle sue strade, ai suoi negozi, nelle sue case, e nella moschea, le azioni di Horra e delle sue amiche si rivelano come un indicatore della qualità per l'uguaglianza di genere nel rispetto e nella affermazione delle reciproche. Così è il corpo delle donne e la mutilazione genitale evitata a definire l'efficacia di queste strategie di turbamento delle costrizioni consuete. La costituzione di una associazione per la difesa delle donne, la discussione della tesi di laurea, diventare avvocato, la vita quotidiana in famiglia e al lavoro, il riconoscimento della bellezza di Milano rivelata fuori dalle ore di punta e dalla sua discrezione estetica. Sono tratti comuni al percorso di vita di tante donne milanesi, con la loro volontà di espressione e affermazione piena. È il carattere più bello di Milano: il progetto di vita come possibilità su cui investire insieme all'esercizio di una cittadinanza attiva. Qui si fondano le possibilità di resilienza dentro il trauma del Covid 19.
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