L’Istat ha fotografato il fenomeno della fuga di cervellI dall'Italia. Su 18mila dottori di ricerca presi in esame, che hanno conseguito il titolo tra il 2004 e il 2006, quasi 1.300 (il 7%) sono andati all’estero tra il 2009 e il 2010, soprattutto studenti del Nord che hanno conseguito il dottorato in giovane età (meno di 32 anni).
I ricercatori che hanno scelto o hanno potuto scegliere di andare via dall'Italia sono per il 41,2 % del Nord, per il 23,3 % del Centro e per il 24,2% del Sud. Spesso per i giovani ricercatori meridionali lo spostamento è verso il Nord Italia. Possiamo pensare che nell'era della blobalizzazione e dei programmi di scambio come l'Erasmus l'Istat fotografi un movimento naturale, ma altri dati ci dicono che non e così. I dottori di ricerca italiani che hanno un’intenzione non definita di rimanere negli Usa passa dal 48,6% tra il 1990-1993 al 62,2% nel 1998-2001; quelli che hanno fatto piani definitivi salgono dal 36,5% al 49,8%. Metà dei giovani italiani che hanno conseguito il dottorato di ricerca negli Stati Uniti, non ha intenzione di rientrare. Ciò che sorprende è che metà dei giovani ricercatori tornerebbe volentieri.
Va inoltre notato che il saldo tra laureti che emigrano e altri che vengono da noi è negativo. Secondo i dati dell’Eurostat Force Labor Survey, nel 1999 il totale dei laureati italiani che lavorava all'estero rispetto al totale dei laureati in Italia era del 2,3%, mentre quello dei laureati stranieri che lavorava in Italia (sempre rispetto al totale laureati) era lo 0,3%. La percentuale di laureati emigrati è sette volte maggiore di quella di laureati stranieri presenti nel nostro Paese. Nei grandi Paesi dell'Unione Europea (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), questo squilibrio c’è solo in Spagna, dove però i due valori sono simili: 0,8% di laureati emigrati contro lo 0,5 di laureati stranieri immigrati.
Tutti questi dati ci dicono che la sconfitta del sistema Italia è evidente e che altri godono della preparazione e del lavoro dei nostri professionisti, senza reciprocità e scambio di conoscenze. Le ragioni di questa dissipazione cognitiva sono chiaramente mostrate dal confronto tra le cifre. Nel 2011 l'Italia ha investito l'1,1% del Pil alle spese destinate alla ricerca e allo sviluppo. La Germania il 2,3%,la Danimarca il 2,4%, la Svezia il 3,3%, la Finlandia il 3,1% e Israele il 4,4%. Fuori dall'Europa il Giappone ha investito il 3,3%, la Corea del Sud il 3% e gli Usa il 2,7%. Chi il doppio, chi il triplo, chi il quadruplo di noi! Un Paese ha un futuro di libertà e di dignità solo se investe in ricerca e innovazione.
Il problema non è tanto frenare l'emigrazione di cervelli, quanto creare un ambiente in grado di consentirne e motivarne il ritorno, nonché l'arrivo di laureati e ricercatori da altri Paesi. Si tratta di investire di più, di coordinare gli investimenti pubblici con quelli privati, di offrire servizi e un ambiente adeguati. Dopo i pesanti provvedimenti "Salva Italia" il Governo, nel quale ci sono competenze riconosciute nel mondo, finalmente deve riconoscere la spesa per l'apprendimento, la ricerca e l'innovazione come un investimento necessario e fecondo, non più una spesa quasi inutile. Allora la rete di scambi e di collaborazioni reciproche nella ricerca aiuterà il passaggio a "Cresci Italia".
lunedì 23 gennaio 2012
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento