La natura della richiesta poteva invece sollecitare
un’utile riflessione sulla necessità di una “prevenzione permanente” in luogo
di una “unità di crisi permanente”. Purtroppo la cosa non
riguarda solo Tortorici, come sappiamo stagionalmente dalle cronache la
situazione idrogeologica del Paese è a rischio diffuso di dissesto. In seguito all’alluvione di Sarno nel maggio del 1998, un
decreto governativo ha chiesto alle regioni di individuare tutte le aree a
rischio dell’Italia.
Secondo
il rapporto sulle frane in Italia realizzato dall’Agenzia nazionale per la
protezione dell’ambiente e per i servizi tecnici (Apat) nel 2007 5.596 su 8.101
i comuni italiani sono interessati da frane, ne sono state censite circa 470
mila in 20 mila km2, pari al 6,6% dell’intero territorio nazionale. Il 69% dei
comuni è affetto da fenomeni franosi per l’assetto morfologico del nostro
paese, per circa il 75% costituito da territorio montano–collinare e per le
caratteristiche meccaniche delle rocce affioranti. La Calabria, l’Umbria e la
Valle d’Aosta sono le regioni con la più alta percentuale di comuni
classificati a rischio (il 100% del totale), subito seguite dalle Marche (99%)
e dalla Toscana (98%). Negli ultimi 50 anni le vittime per frana ammontano a
2.552, più di 4 vittime al mese e sono stati identificati 4.530 comuni con
livello di attenzione elevato e molto elevato per rischio da frana. I rapporti
ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale) ci comunicano
che negli ultimi 80 anni la penisola Italiana è
stata interessata da 5.400 alluvioni, 11.000 frane con 70.000 persone
coinvolte, la quantificazione dei danni negli ultimi 20 anni ammonta a 15
miliardi di euro. Oltre 1.700 amministrazioni comunali, pari al 30% dei 5581
comuni classificati a rischio idrogeologico dal Ministero dell’Ambiente e
dall’UPI (Unione delle Provincie Italiane) sono state interessate dall’indagine
svolta da Legambiente e dal Dipartimento della Protezione Civile con “Ecosistema Rischio 2009” . L’indagine
ha fornito un quadro preoccupante sul pericolo frane in l’Italia
evidenziando forti ritardi nella prevenzione e troppo cemento lungo i corsi
d’acqua e in prossimità di versanti franosi e instabili. Nel 79% dei comuni
coinvolti nella indagine sono
presenti abitazioni in aree esposte a pericolo di frane e alluvioni, nel 28%
dei casi sono presenti in tali aree interi quartieri e nel 54% fabbricati e
insediamenti industriali. Nel 20% dei comuni oggetto d’indagine in aree classificate a
rischio idrogeologico sono presenti strutture sensibili o strutture ricettive
turistiche. Nel 36% dei comuni non vi è una manutenzione ordinaria delle
sponde. Solo il 7% delle
amministrazioni comunali ha provveduto a delocalizzare abitazioni e solo nel 3%
dei casi sono stati avviati interventi di delocalizzazione dei fabbricati
industriali. Nel 15% dei comuni mancano ancora i piani urbanistici che
prevedono vincoli alla edificazione delle aree a rischio idrogeologico. Invece
l’82% delle amministrazioni comunali possiede un piano d’emergenza grazie
alla attività svolta dall’organizzazione del sistema locale di protezione civile
e nel 54% dei casi i piani sono stati aggiornati negli ultimi due anni. Ma qui ci troviamo ancora nella logica di
predisporre l’intervento dopo la catastrofe piuttosto che prevenirla. Se invece
della rimozione delle tragedie ne avessimo una memoria viva le immagini dei
telegiornali comporrebbero una tragedia dopo l’altra una mappa corrispondente
all’Italia, dalla Valtellina al Tanaro, dall’Oltrepò Pavese a Sarno, da Ischia
a Messina e così via a sfregiare il Belpaese. Ricordiamo le
immagini che nel 2007 fecero il giro del mondo per un crollo in roccia di 60.000
m3 staccatosi
dalla Cima Una in Val Fiscalina, nell’Alto Adige, uno dei
gioielli delle Dolomiti. Le cause che innescano più frequentemente
le frane sono le precipitazioni brevi e intense o eccezionali e prolungate, in
aumento per le mutazioni del clima. La conformazione geologica di gran parte
della Penisola ha una morfologia a rischio: versanti inclinati che terminano
direttamente sul mare, sui quali però sono arroccati molti centri abitati.
Ancora più direttamente le attività umane destabilizzano i versanti con tagli
stradali, scavi, cattiva o assente pianificazione territoriale e l’intensa
urbanizzazione lungo i corsi d’acqua e in prossimità di versanti fragili. Non
solo i fiumi, ma anche i torrenti e le fiumare sono spesso interessati da
intubazioni, discariche abusive, ponti sottostimati con edifici costruiti
dentro gli alvei. L’espansione edilizia è avvenuta spesso in aree instabili ed
ha prodotto un significativo aumento del rischio da frana. L’approccio efficace al problema
del dissesto idrogeologico non risiede nella capacità di previsione, resa più
precisa dalle mappature sempre più informate e informatizzate. Prevedere il momento
della frana è di poca utilità. L'unica soluzione risiede nella prevenzione: è indispensabile una mappatura con la
raccolta e l’archiviazione delle informazioni, per permettere una corretta
pianificazione territoriale nell’individuare aree di nuova urbanizzazione, per
la collocazione e la progettazione di nuove infrastrutture, per la necessaria
definizione delle limitazioni d’uso di aree specifiche e per l’apposizione di
vincoli. Le norme che limitano o impediscono la costruzione sulle aree a rischio
ci sono ma vanno applicate. I dati sulla pesante urbanizzazione delle
zone a rischio nel paese dimostrano come sia urgente dare maggiore efficacia a
questi strumenti normativi, vi è la necessità di invertire la tendenza nella
gestione del territorio. La Regione Sicilia ha speso per sistemazioni
idrauliche e dissesto idrogeologico oltre 200 milioni di euro, soldi che a
quanto pare, però, non sono stati sufficienti. Pensare di rinforzare in modo
indifferenziato la resistenza del suolo avrebbe costi insostenibili.
Sorriso Valvo, dell’Istituto di Ricerca per la protezione Idrogeologica del
Consiglio Nazionale delle Ricerche ha fatto sapere che la sola bonifica dal
rischio idrogeologico della Calabria costerebbe 1 miliardo di euro all’anno per
15 anni. Mentre la bonifica dell’intera Italia costerebbe 20 volte tanto. Le stesse Regioni in molti casi
peggiorano la situazione accrescendo i rischi, perché consentono nuove deroghe
senza alcun rispetto per le regole della prevenzione mentre dovrebbero esercitare il contrasto
all’abusivismo e al disboscamento scriteriato favorendo la rinaturalizzazione
dei corsi d’acqua e delle zone dissestate. Serve un intervento che permetta
agli enti locali di non fare cassa solo attraverso gli oneri di urbanizzazione
e devono essere sanzionate le amministrazioni locali che non fanno rispettare i
piani di assesto idrogeologici. Ancora una volta la manutenzione del territorio si propone come urgente necessità e,
ad un tempo, come importante opera pubblica per l’Italia, perché insieme alla
necessaria sicurezza e al risparmio dei danni garantirebbe un impiego diffuso
ed intenso di mano d’opera. Quanta identità vogliamo perdere quanti flussi
turistici vogliamo vedere andare ancora altrove nella competizione
internazionale? Quanto si vuole calpestare della Costituzione?L’ignoranza e lo sfregio
della Carta e delle sue istituzioni già oggi alimenta una deriva dissolutiva
dell’idea di comunità nazionale, della sua identità e dei suoi compiti dentro
il quadro europeo ed internazionale. L’equivalenza tra federalismo e “piccole
patrie” rappresenta la prospettiva più plastica di questa condizione. Il
fango delle diffamazioni copre la mancanza di una politica pubblica per i beni
culturali e l’ambiente, relegati a lussi cui ci si può dedicare nei tempi di
crescita economica. Eppure mai come oggi la crescita economica di un paese
si fonda sulla unitarietà e la qualità di un ecosistema culturale ed
ambientale. L’Italia custodisce la metà del patrimonio artistico mondiale.
L'arte figurativa, la musica, l'architettura, la poesia,la letteratura, l’opera
lirica, teatrale e cinematografica, hanno contribuito a dare forma e anima alle
nostre città. La stesa identità nazionale degli italiani si fonda su questa
consapevolezza di “bellezza”. Una consapevolezza che è parte della nostra
Costituzione repubblicana, nell’articolo 9 essa afferma:” La Repubblica
promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela
il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”
Oggi anche in virtù della Convenzione europea sul paesaggio siglata a Firenze
il 20.10.2000. La Consulta ha affermato una concezione ampia di
“paesaggio” anche grazie alla legge n.431/85 ( legge Galasso) che ha
individuato intere categorie di beni direttamente assoggettati ope legis a
tutela in forza del loro particolare interesse ambientale, si passa così
dalle bellezze naturali, intese come dimensione solo estetica del territorio,
ai “beni ambientali” come beni culturali che interessano vaste porzioni di
territorio nazionale. La Corte Costituzionale nella sentenza 151/186
sancisce ”la primarietà del valore estetico-culturale” il quale non può essere
“subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici”, al contrario deve
essere “capace di influire profondamente sull'ordine economico-sociale”. Un
chiaro indirizzo per la capacità di un paese di produrre valore dentro
l’economia della conoscenza, quella su cui basano le proprie possibilità di
ripresa e di competitività le democrazie nel mondo. Con il Codice dei beni
cultuali e del paesaggio (D.lgs. 22 gennaio
2004 n.42), si
conclude una lunga evoluzione legislativa in materia di tutela e valorizzazione
del paesaggio e dell’ambiente. Con la nuova disciplina legislativa il
‘paesaggio’ è “una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla
natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni”, è comprensivo di
tutti gli aspetti della tutela paesaggistico-ambientale e quindi un bene
culturale che, come le opere d’arte e i monumenti, è oggetto di tutela e di
riqualificazione. Salvatore Settis con la pubblicazione di “ Paesaggio
Costituzione cemento” coglie
la contraddizione tra il dettato costituzionale e la pratica e la cultura
materiali quotidiane: “E’ oggi più che mai necessario
parlare di paesaggio”.
“Il
degrado di cui stiamo parlando non riguarda solo la forma del paesaggio e
dell'ambiente, e nemmeno solo gli inquinamenti, i veleni, le sofferenze che ne
nascono e ci affliggono” è la condivisione del nostro territorio e delle nostre
regole di convivenza ad essere a rischio. Occorre una politica
pubblica scientificamente e tecnicamente informata, coerente e stabile e
capace di coordinare scienza, tecnologia ed economia.Nel 2011 dopo il disastro nell'estremo levante ligure e nel
nord della Toscana il Presidente Napolitano disse
"Sono le conseguenze molto dolorose che paghiamo per quelli che sono
grossi turbamenti climatici". Oggi ricordando il Vajont: «No inevitabile fatalità non sottacere le
responsabilità sul disastro»
No
Presidente, non basta, paghiamo anche speculazione e mancanza di prevenzione.
Perché non si costruisce solo dove la mappa del dissesto idrogeologico
consente? Altrimenti questo paese smemorato sarà unito dai disastri e dalle
loro celebrazioni.
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