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lunedì 25 gennaio 2010

Il negazionismo ambientale

Il negazionismo è in ognuno di noi, è l’omeostasi delle nostre abitudini e delle nostre rendite di posizione, sono le lenti sfuocate attraverso le quali alziamo lo sguardo sopra il nostro ombelico. Giocando sull’effetto sorpresa, alcuni hacker negazionisti della problematicità dei cambiamenti climatici, hanno estratto alcune frasi da mail scambiate tra scienziati ( le quali ammontano a 160 Mb!) al fine di dimostrare che il problema non esiste.

Purtroppo non abbiamo a che fare con un trucco scientifico, il climatologi del Global Carbon Project hanno da poco pubblicato uno studio sulla risvista Nature Geoscience che arriva a ipotizzare un aumento della temperatura di 6 gradi, rispetto ai livelli pre-industriali, entro la fine di questo secolo se proseguiremo sulla strada di questo modello di sviluppo. E’ una previsione che conferma quanto registrato dal Gruppo Intergovernativo delle Nazioni Unite di esperti sul clima (Giec). Il quarto Assessment Report-Ipcc del gruppo internazionale di ricercatori che studia il surriscaldamento climatico evidenzia come gli eventi meteorologici stiano diventando sempre piu' estremi con indici consistentemente alti dalla fine degli anni '70. Il “toccar con mano” le conseguenze dei cambiamenti climatici già in atto, dalle zone del pianeta interessate dall’estensione della siccità a quelle sempre più spesso colpite da uragani ed inondazioni, insieme ai problemi di scarsità ed esaurimento delle fonti energetiche non rinnovabili così come ai problemi legati al consumo e alla qualità dell’acqua, spiegano la straordinaria presenza a Copenhagen di Paesi (190) e di primi ministri e capi di stato (105).

Considerare il maldestro colpo di coda negazionista come qualcosa di estraneo, altro dalle preoccupazioni delle persone di buona volontà , costituirebbe una miope presunzione. Esso costituisce l’esplicitazione di tutte le diffidenze, le pigrizie e le difficoltà che attraversano ognuno di noi nel passare “dal dire al fare”, nel riconoscere e tradurre preoccupazioni e intenzioni in comportamenti coerenti capaci di cambiare i nostri consumi e i nostri costumi. Un paio di esempi spiegano la nostra pigrizia e la nostra ignoranza. Le periodiche immagini di bambini malnutriti che ci propongono i telegiornali ci ricordano che un'alimentazione insufficiente porta a dimagrimento, apatia, debolezza muscolare, depressione del sistema nervoso, minor resistenza alle malattie, invecchiamento precoce, morte per inedia. Al contrario nei paesi avanzati il fenomeno alimentare più diffuso è la sovralimentazione con i conseguenti mali fisici: disturbi al cuore, appendicite, calcoli, vene varicose, emboli, trombosi, ernia, emorroidi, cancro del colon e del retto, obesità. Poco meno della metà dei cereali prodotti sulla terra vengono utilizzati in Occidente per alimentare il bestiame che viene poi consumato sotto forma di carne o per produrre biocombustibile. Se la quantità di cereali destinati all'alimentazione del bestiame venisse impiegata direttamente nell'alimentazione umana, potrebbero venir nutrite ben 2 miliardi e 500 milioni di persone. Per quanto riguarda l’acqua potabile troviamo solo conferme della disparità Nord/Sud: in Africa circa il 75% della popolazione rurale non ha acqua potabile; in Americalatina sono il 77%; in Estremo Oriente circa il 70%. Sono più di 600 milioni le persone al mondo prive di acqua potabile.

La sfida ecologica, se è da un lato ineluttabile, dall’altro è una metafora importante per leggere insieme tanti problemi del pianeta; l’ecologia non deve essere tanto un punto di vista complessivo, quanto il tentativo di riannodare insieme molti punti di vista. Oggi in un mondo dove sono venute meno le teorie onnicomprensive, rimane importante l’attitudine, anzi l’arte, di montare insieme i problemi in modo che ogni controversia si illumini di un nuovo punto di vista non appena entra a far parte, di un insieme più ampio. E’ l’eccezione dell’ecologia delle idee. Nella sfida ecologica dei giorni nostri, ci sono due rischi: uno è il catastrofismo puro e semplice, che ha certo le sue buone ragioni, e le trova nell’idea che stia covando qualcosa di irreparabile nella biosfera, qualcosa che suscita allarme in chi alla sfida ecologica deve rispondere, come ci è stato ricordato. Il secondo è il pensiero che dice: la condizione umana è da sempre in uno stato di crisi, quindi non dobbiamo preoccuparci più di tanto, perché la nostra condizione è stata vissuta da ogni generazione; quindi si tratta di tornare sui nostri passi, senza bisogno di innovare dei modelli di pensiero e delle pratiche di vita. Questi due atteggiamenti a volte sono prevalenti, altre si accordano l’uno con l’altro. Dobbiamo partire da un altro punto di vista, se vogliamo capire la specificità dell’odierna sfida ecologica. Benché la condizione umana sia sempre stata caratterizzata da una crisi permanente, gli aspetti della crisi ogni volta vengono declinati in maniera differente; ad esempio oggi è chiaro che dal punto di vista dell’abitazione della specie umana sul pianeta, i luoghi, sono decisamente cambiati. Bastano alcuni dati: fino a un secolo fa si nasceva, si viveva e si moriva in un intorno molto piccolo, di non più di 50 chilometri di raggio. Oggi noi sappiamo che non è più vero: ogni individuo nella sua vita interagisce con qualcosa di ben più grande del mondo in cui vive.

L’altro aspetto è che all’inizio del secolo gran parte dell’umanità, sostanzialmente contadini, viveva in campagna. Oggi la gran parte dell’umanità, e toccherà il 70% in questo secolo, vive inurbata, con un doppio rapporto: di desertificazione di buona parte della superficie terrestre, e di cementificazione energivora di quei luoghi che erano le città capaci di esercitare funzioni di sintesi ed innovazione.

Se 50 anni fa il 60% dei gas serra emessi in atmosfera veniva assorbito dal pianeta ora questa percentuale è scesa al 55: un calo dovuto alla risposta dei meccanismi di assorbimento, in primo luogo oceani, al riscaldamento in atto. Intanto le emissioni continuano ad aumentare: quelle legate ai combustibili fossili, anche grazie al sorpasso del carbone sul petrolio, dal 2000 al 2008 sono cresciute con una media annua del 3,4%, mentre negli anni ’90 l’aumento annuo era dell’1%.
Dal 1990 al 2008 la CO2 emessa è cresciuta del 41%, del 29% a partire dal 2000. Un aumento concentrato soprattutto nei paesi emergenti – con Cina e India che dal 2000 hanno raddoppiato le proprie emissioni. I paesi in via di sviluppo emettono ora più di quelli ricchi, ricordando però che un quarto delle loro emissioni è legata alla produzioni di beni che poi vengono venduti all’Occidente.
La questione centrale, oggi, non risiede soltanto nel comune riconoscimento culturale dei “commons”, dei beni comuni naturali e culturali, in quanto tali indisponibili all'esaurimento o alla riduzione a beni privatizzabili sottratti al pubblico dominio e invece meritevoli di pratiche che li preservino anche per la disponibilità delle future generazioni. Il riconoscimento dei beni comuni può avvenire se disponiamo di uno sguardo capace di coglierne la struttura coerente all'interno dei processi che la comunità umana sta vivendo su questa piccola terra in questo passaggio di millennio. Non si tratta di condividere una definizione più o meno catastrofica, quindi, ma uno sguardo con la testa e con il cuore. Solo questo riconoscimento può costituire un denominatore comune per una relazione tra le differenze politiche, economiche, culturali, etniche e religiose, che non sia a somma zero per la specie umana. Perché il futuro è oggi, sono le azioni e le scelte che decidiamo di fare alla luce della conoscenza di cui disponiamo, della sua qualità e della sua coerenza con il vivente tutto. Gli uomini, figli dell'affanno individuale, del potere terreno del sacro e poi delle ideologie, hanno faticato a riconoscere i beni comuni come tali. Una ulteriore difficoltà è legata al riconoscimento dei beni comuni come condizione essenziale per la vita del vivente, umano e non, sulla terra. Ci occorre un nuovo sguardo epistemologico, spirituale ed esistenziale, adeguato a vedere e riconoscere i beni comuni. Questo inizio di secolo e di millennio sembra un pettine al quale sono arrivati i nodi critici di un modello di sviluppo energivoro, dei problemi drammatici che già oggi il cambiamento climatico prefigura e della logica speculativa del “denaro da denaro”, peraltro nominale.Una nuova consapevolezza inizia ad emergere come necessità: noi non ci salveremo per reazione a un disastro più grande degli altri, noi ci salveremo in virtù di una scelta di valore. Ciò che cambia oggi è il contesto relazionale che interessa il genere umano e la relazione tra genere umano e il vivente tutto. Internet, con le sue potenzialità di calcolo, la connessione senza fine di nodi, la non conoscenza di confini, costituisce una impresa cognitiva collettiva che ben esemplifica i concetti/valori di reciprocità e interdipendenza.

L'altruismo come egoismo illuminato “so di essere parte di una comunità e se la comunità sta

meglio sto meglio anche io”. Questa etica della responsabilità, questa consapevole reciprocità con il

vivente, è il senso che vogliamo ritrovare nelle pratiche della nostra vita abbandonando

l'atteggiamento egoistico dove ogni cellula/individuo va per suo conto, magari seguendo dettami

prescrittivi, recuperando un atteggiamento cooperativo, immettendo informazioni coerenti nelle

cellule e negli individui affinché il sistema da malato diventi sano. Il riconoscimento di una

coerente dimensione pubblica richiede una relazione con gli interessi privati, una partecipazione

informata produce una consapevolezza e una responsabilità condivise. Per fronteggiare i nodi che sono venuti al pettine di questa nostra piccola terra dobbiamo curare le cause, non i sintomi: l'ostacolo è costituito dal paradigma scientifico riduzionista combinato con l'approccio utilitarista unilaterale, che riducono i beni comuni a risorse proprietarie contendibili.

Il rinascimento della spiritualità, al di là della formalizzazione nelle/delle religioni, al di là del

riduzionismo quantitativo, ci consentirà delle scelte di valore capaci di riferirsi agli interessi

generali di queste e delle future generazioni, quindi di considerare i beni comuni come diritti

costitutivi inalienabili. La differenziazione culturale e biologica deve tornare ad essere la condizione normale e non l'eccezione residuale.

Occorre una disponibilità piena delle risorse e delle opportunità della società della conoscenza

digitale in luogo della ripetizione cieca e compulsiva di un modello dissipativo di risorse, di

possibilità, di vita, di diritti e di democrazia, così simile al comportamento delle cellule staminali

tumorali mutate, bloccate nella loro capacità di differenziazione, così costrette solo a moltiplicarsi.

L'unica eccezione dell'universo è l'umanità, siamo parte di una unità più grande, l'universo è coerente e noi dobbiamo ritrovare questa coerenza: occorre una evoluzione della coscienza per creare le condizioni per iniziare un viaggio nella consapevolezza

La questione ecologica, dunque, va declinata in maniera diversa a seconda delle varie aree del pianeta. In Nord America, in Scandinavia ci sono dei luoghi in cui la possibilità di un ecosistema ristabilito sta diventando possibile. Vi sono altri luoghi in cui gli ecosistemi hanno più resistito, e altri ancora che invece stanno vivendo in modo accelerato tutti i problemi dell’urbanizzazione dell’età moderna. Abbiamo il problema europeo di qualificare l’esperienza urbana rispetto a degli spazi e dei tempi limitati. Abbiamo poi il problema del Terzo Mondo che chiede di muoversi invece su livelli e su scala molto più ampia: quindi il destino della città è un po' una metafora del destino dei popoli del mondo che quanto più hanno opportunità di interazione l’uno con l’altro, tanto meno questa interazione ha un significato portatore di qualità. Per questo parliamo dei luoghi della cittadinanza planetaria, per arrivare poi a dare corpo, concretizzare i due riferimenti classici dell’ambientalismo: il concetto di locale e globale. Non esiste più un pensare globale e un agire locale, ma si penserà e si agirà su tutti e due i piani incrociati. Questo aspetto introduce quello di comunità, perché il passaggio della crisi della città come luogo dell’innovazione e della contaminazione tra culture e linguaggi è il laboratorio per eccellenza del cosmopolitismo. Invece oggi rischia di essere il luogo dell’ atomizzazione, della crisi di identità, della crisi di ruoli e di funzioni: questo succede spesso in molte città, che si devono ripensare in termini di metropoli regionali, in scala non solo europea, ma nella dimensione planetaria. Devono quindi ripensare al proprio interno quali siano le condizioni che fanno ritornare la città luogo d’eccellenza delle contaminazioni, del laboratorio sociale, culturale, scientifico, quel luogo che offre ad ognuno delle opportunità. Copenhagen si presenta all’appuntamento con la Conferenza sui cambiamenti climatici promossa dalle Nazioni Unite-COP 15 dal 7 al 18 dicembre, con un esempio concreto di città sostenibile. Nord Havn, il vecchio quartiere portuale a nord della città è un cantiere aperto, un buon manifesto della sostenibilità sociale e d ambientale del vivere comune.

180 progettisti, architetti e urbanisti di tutto il mondo hanno partecipato a un concorso internazionale di idee per la realizzazione di un’area di sviluppo urbano per 40.000 abitanti e 40.000 dipendenti, su una superficie totale di 3/4milioni di mq. Ora le idee ed i progetti stanno prendendo forma. Il quartiere è cablato in fibra ottica, attraversato dalla rete a banda larga. E’ un quartiere sull’acqua, un quartiere verde, dove si produce energia rinnovabile per il suo funzionamento. Un quartiere a basso impatto di CO2, dove non circolano automobili ma biciclette. Un quartiere che nasce con la partecipazione informata dei cittadini, a cominciare dai bambini, che vengono coinvolti in laboratori creativi sistemati in grandi cupole gonfiabili o nei container colorati, trasformati in contenitori culturali.

La visita a Nord Havn da parte dei leader del mondo e dei delegati alla conferenza può costituire un’argomentazione molto efficace a sostegno di un accordo collettivo sul clima è un’esperienza bella e forte. Qui c’è uno sforzo collettivo, corale, della municipalità e delle persone, un’idea di comunità aperta nella quale ognuno può dare il proprio contributo e può ricevere in cambio una qualità migliore del vivere sociale.

Un altro modo di vivere il mondo è possibile dunque.

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