domenica 13 marzo 2022
Maternità surrogata e bambini prodotto. Una riflessione cruciale che non riguarda solo l'Ucraina.
Avvenire
L'intervista. Bebè «surrogati», persone o cose?
Antonella Mariani giovedì 27 maggio 2021
Il filosofo Alessio Musio: con l’utero in affitto salta il limite tra generare e produrre. Ma la gravidanza non è un lavoro
I bambini nati da utero in affitto bloccati in Ucraina per il lockdown nella primavera 2020
I bambini nati da utero in affitto bloccati in Ucraina per il lockdown nella primavera 2020 - Reuters
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La copertina colpisce: tre robot con sembianze di donne. Robot umanoidi che, allegoricamente, rappresentano già lo “sfruttamento” del corpo femminile… di coloro che nella maternità surrogata concorrono alla nascita di un bambino: la donna che ha fornito i suoi ovociti, quella che lo porta in grembo e infine quella che ha voluto quel bebé e lo alleverà. Ma di chi è veramente figlio quel neonato?
Alessio Musio, formatosi in bioetica alla scuola del filosofo Adriano Pessina, è oggi ordinario di Filosofia morale all’Università Cattolica di Milano. Il suo ultimo lavoro è un pamphlet appassionato che fin dal titolo "Baby boom, critica della maternità surrogata" (Vita e Pensiero, pagg. 280, euro 22) esprime un punto di vista netto.
Professor Musio, nel suo libro scrive che la maternità surrogata realizza un mutamento di civiltà. In che senso?
Nel senso che la maternità surrogata delega alla tecnologia non soltanto la generazione, ma la stessa gestazione e il parto, secondo una logica di sostituzione.
Chi viene sostituito?
La madre che per nove mesi porta in grembo il bambino e lo mette al mondo. La nostra cultura però ci suggerisce che le persone sono uniche e irripetibili. Ecco dove emerge il mutamento di civiltà: con le sue sostituzioni la maternità surrogata espone lo statuto dei figli al deflagrare della differenza tra le persone e le cose. A rischio è ciò che nell’etica è il linguaggio della dignità e nelle relazioni quello dell’amore: il senso dell’unicità dell’essere umano. Ma l’unicità non è soltanto quella “personale”: è anche quella dei momenti, dell’esperienza. Nella maternità surrogata commerciale la gestazione e il parto diventano un lavoro e perdono così il loro significato peculiare.
Il professor Alessio Musio
Il professor Alessio Musio - a.m.
La gestazione e il parto potranno mai diventare un lavoro?
No, perché aspettare un figlio significa mettere al mondo il miracolo dell’unicità. Nella maternità surrogata commerciale, però, di fatto gestazione e parto sono oramai pensate come una professione, e quindi rientrano tra gli atti che possono diventare preda della serialità lavorativa, cioè delle tante cose che ripetiamo quotidianamente lavorando. E pensare che per decenni si è lottato per proteggere la maternità dalle dinamiche del lavoro, mentre oggi è la maternità stessa a diventare un lavoro…
C’è chi dice che nella maternità surrogata a essere in vendita non è il figlio, ma i servizi gestazionali. È d’accordo?
Non posso esserlo per il fatto che quei servizi non ci sarebbero senza la presenza del bambino. La maternità surrogata commerciale, quindi, è per forza di cose un mercato dei figli, tant’è che ci sono i cataloghi delle madri genetiche e delle madri gestazionali.
«A chi arriva ad assimilare la maternità di Maria
a un caso di surrogazione
rispondo che lei è stata vera mamma secondo la carne,
mentre la madre reclutata per conto terzi
è solo gestazionale: non ne deve restare alcuna traccia»
Un altro tema che lei affronta nel libro è la pretesa legittimazione ante litteram della maternità surrogata nella Bibbia, grazie a figure di ancelle che mettono al mondo bambini per altri. Ma è vero che ci sono analogie con le pratiche contemporanee?
No, per nulla. Negli episodi dell’Antico Testamento la madre che mette al mondo – solitamente una schiava – è e rimane l’unica madre carnale del figlio. Non c’è ovviamente l’appalto della generazione alla tecnologia e non c’è il fenomeno delle tre madri, cioè la scissione tra la madre genetica, la madre gestazionale e quella sociale. Nella vicenda biblica la madre resta presente nella vita del figlio, non scompare come accade nella quasi totalità dei casi di maternità surrogata, tanto che la sua presenza in qualche caso perturba l’equilibrio famigliare. C’è anche chi paragona la maternità surrogata alla generazione di Gesù da parte di Maria; ma Maria ne è l’unica vera madre. Nella maternità surrogata, invece, la maternità gestazionale non coincide con quella genetica e di sé non lascia traccia. Insomma, sono analogie fuori luogo.
E che dice di narrazioni più contemporanee come "Il racconto dell’ancella"? C’è una linea di continuità dalla Bibbia a Margaret Atwood nel considerare il bambino un semplice prodotto?
il successo di quel romanzo e della serie che ne è stata tratta è significativo. C’è la critica - fortissima - delle riduzione delle persone a biologia. Ma c’è anche la critica - altrettanto radicale - all’idea che la carne non conti nulla: solo così si spiega lo strazio dell’ancelle quando si vedono portato via il bambino dopo il parto, come negli scenari della maternità surrogata liberale. In ogni caso è una conferma del fatto che quando è in gioco la generazione umana si realizza un’impressionante convergenza di piani: etico-antropologico, certamente, ma anche teologico e politico.
Nel suo libro cita spesso il pensiero femminista sulla maternità surrogata. Perché?
Perché il solo sguardo maschile sul fenomeno non basta. Nessuna donna anche favorevole alla maternità surrogata paragonerebbe mai la gravidanza a “scavare una buca” o all’“affitto di una casa per le vacanze”, come fanno alcuni studiosi uomini. Più in generale direi che il pensiero femminista critico sulla maternità surrogata - e qui mi faccia fare un elogio ad Avvenire, per il modo con cui ha diffuso nel più vasto pubblico gli interessanti testi di una pensatrice come Agacinski – offra l’occasione per colmare una lacuna di molta ricerca bioetica. Si pensa a partire dai corpi e non dalla smaterializzazione dei corpi che le tecnologie riproduttive rendono possibile… Alcune autrici, ad esempio, osservano in modo acuto che la madre genetica ha un’esperienza del figlio che è diventata come quella del maschio, perché non ha un rapporto carnale con lui, dato che non si sviluppa nel suo grembo. Altre sottolineano come cambi anche il rapporto con i medici che si occupano di maternità surrogata: più simili ai veterinari, che si occupano degli interessi dell’allevatore che non di quelli della mucca e del vitellino. Molti pensano che criticare le modalità in cui un bambino viene concepito e fatto nascere significa mancare di rispetto al bambino stesso, considerarlo in qualche modo "sbagliato".
Cosa risponde?
È una strategia argomentativa usata per confondere le acque. Criticare la maternità surrogata vuol dire criticare chi si arroga il diritto di far venire al mondo un figlio sottraendolo alla sua madre di carne. Non vuole certo dire negare lo statuto ontologico del figlio. Il figlio resta figlio. La dignità è un dato ontologico, strutturale, di ogni esistenza umana proprio per fatto di essere umana, ma ci sono situazioni che non sono all’altezza della dignità dell’uomo. E dunque devono essere modificate. È sbagliato trattare il figlio come una cosa e come una merce proprio perché il figlio non lo è.
Nel suo libro si parla spesso di "eccesso generativo e generazionale della maternità surrogata": ci vuole spiegare cosa intende?
L’eccesso generativo e generazionale è quel mettere in crisi lo statuto dei figli di cui abbiamo parlato, il venire meno della distinzione tra le persone e le cose. In questo senso dire no alla maternità surrogata significa salvaguardare la distinzione fondamentale tra generazione e produzione. La scelta del termine eccesso è anche una critica ai figli di una generazione, quella venuta dopo il baby boom, che ha simultaneamente cominciato a non fare più figli e a generarli in modo tecnologico e commerciale. In ogni caso nel riscoprire il significato autentico della generazione in gioco è ciascuno di noi. Perché il figlio non è il bambino, ma la persona umana. Nel libro riprendo un’immagine dello scrittore Antonio Scurati che parla di "braccino corto nei confronti della vita", che non si spiega con ragioni economiche e materiali. Abbiamo imparato a vivere per il "metro breve del presente assoluto" in cui tutto si gioca nell’istante, in cui non trovano spazio le grandi narrazioni: la politica, quella vera, l’amore, la generazione dei figli.
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